Thriller paratattico: libera i tuoi tabù

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    La settimana scorsa, nella rubrica del giovedì, abbiamo affrontato il tema dei tabù. Con mia sorpresa, ma non poi più di tanta a dire il vero, è stato uno dei post più letti di tutto il blog.

    Certamente l’argomento pruriginoso tira, lo sappiamo. Ma è anche vero che dai commenti è nata una bella discussione che ci ha portati a confidarci reciprocamente e a osservare quanta influenza abbiamo i tabù sulla nostra scrittura.

    Abbiamo anche detto, ed è bene sottolinearlo proprio qui, che non sempre i tabù che ci bloccano sono nostri tabù personali, ma che come aspiranti scrittori possiamo essere condizionati dai tabù della società e, consciamente o inconsciamente, ci risulta difficile superarli.

    Eppure superare i tabù attraverso la scrittura ha una serie di vantaggi non da poco, tra i quali

    1. Crescita artistica
    2. Crescita personale
    3. Contributo alla crescita della società
    4. Maggiore possibilità di ottenere successo.

    Detto questo, oggi ospito una tappa del #blogtour di Michele Scarparo con l’ormai famosissimo Thriller Paratattico. E sono molto emozionata!

    Prima di dirvi quale sarà il tema da me proposto (come? non ci siete ancora arrivati?!?) ricordo le tappe precedenti e quelle future:
    Le tappe precedenti:
    Marina (Il Taccuino dello Scrittore) – Thriller paratattico
    Simona (SCRITTI A PENNA) – Una storia in sei parole
    Helgaldo (da dove sto scrivendo) – Acchiappami
    Chiara (Appunti a Margine) – Una storia in sei parole
    Sandra (ilibridisandra) – Acchiappami
    Lisa (de agostibus) – Una storia in sei parole
    Giulia Mancini (Liberamente Giulia) – Una storia in sei parole 
    Seme Nero (Semi d’inchiostro) – Thriller paratattico
    Barbara Businaro(Webnauta) – Acchiappami in versione guarda che quarta
    M.(Il mondo di M.) – Una storia in sei parole
    Le tappe future:
    Chiara (Appunti a Margine) – Una storia in sei parole – 4 maggio
    Andrea (Anonima Andrea Cabassi) – Una storia in sei parole – 10

    Se non avete mai partecipato, vi consiglio di visitare la pagina del sito di Michele che dà origine al blogtour e alle tappe precedenti qui sopra linkate.  Il gioco è semplice: dovete leggere il racconto scritto da Alfred Hitchock – Helgado e riscriverlo seguendo le mie indicazioni. Ecco la versione originale:

    Una giovane donna si trova sperduta nel quartiere parigino di Montmartre, intorno a lei una scura coltre di buio. La giovane cammina fra i vicoli costeggiando un lungo muro, ha paura, entra finalmente in una casa. Sale le scale, comincia a intravedere una luce, si trova nel mezzo di un bar frequentato da uomini ubriachi. Gli uomini si avventano su di lei: la vogliono rapinare, forse abusarne. La donna urla di terrore, i maniaci la legano, la buttano in un fiume, aspettano sulla riva di vederla divorata dai topi. La donna sprofonda nell’acqua, comincia a dondolare. Si sente soffocare. Una mano la scuote, si sveglia, finalmente la voce amica del dentista: «Tutto fatto signora. Mezza corona, prego!»

    La mia proposta è di riscrivere il racconto focalizzando l’attenzione su una scena che potrebbe essere origine di tabù, con l’obiettivo di superarli. Sesso. morte, violenza, malattia, omosessualità, pedofilia, etc etc? Quale argomento avete difficoltà a trattare a causa di un tabù? Come ho spiegato in premessa, possono essere i vostri ma anche quelli della società. Insomma, pescate in quelle acque torbide da cui, con una scusa o con l’altra, vi siete sempre tenuti lontani per paura di sporcarvi. Liberatevi (e liberateci) dai tabù.

    Potete scrivere il vostro racconto qui nel commenti o, se preferite, inviarlo via mail. Buon lavoro a tutti.

     

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    114 Comments

    • Ho un’idea, ma il tabù non lo affronti in pochi minuti magari tra una cosa e l’altra, tocca aspettare di avere più tempo in serata. Ma ci sono di sicuro. Grazie!

      • Bene, Sandra. Aspetteremo la tua versione! 🙂

      • Michele Scarparo

        Hai ragione, Sandra: un tabù è complicato. Va affrontato con calma e giusta predisposizione d’animo perché farà male. Questo è un thriller da tempi dilatati…

        • Allora Mastro Michele concedici una dilazione sullo sviluppo. Andiamo alla domenica successiva? (che me la tiro sui piedi perchè sono pure di maratona…mi tocca correre in tutti i sensi XD )

          • Michele Scarparo

            Andiamo tranquillamente alla settimana successiva. E, se servirà, allungheremo ancora 🙂

            • Allora tiro un sospiro di sollievo! Accidenti a me che ho pensato una prova per me difficilissima!! :O

    • Uhm, nel momento in cui cercavo la scena, mi sono accorta di puntare su quella più facile 😉
      Ora due ideuzze ce le ho (non una, due!), spero di trovare tempo e tranquillità per svilupparle. Parto da quella che lo sento sto cercando di schivare, non a caso, perchè più che un tabù è proprio un terrore personale. (suspance….)

      • Potresti cedermi un’idea? Io ci penso già da un po’, ma mi sa che mi sono messa in crisi da sola! 😛

        • Eh, non fare la furbetta! L’hai scritto chiaro e tondo qual è il tuo tabù nel post precedente!! 😉

          • Acc… Mi sono fregata da sola! XD XD

    • Idem. in crisi anch’io. Tabù dentro il tabù! 🙂

    • Michele Scarparo

      A me le idee non mancano: significa forse che sono uno scostumato senza freni inibitori? 🙂

      …Poi, certo, la realizzazione è un’altra cosa, eh!

      • Oppure che hai tanti tabù da superare! 😛

    • nadia

      wow! Ora mi immergo, ma qui piatto ricco!Sempre molto stimolante

      • Perdonami Silvia se uso la tua pagina per dire una cosa a Nadia: ho lasciato un commento sul tuo blog, ma credo sia finito nello spam. Su wordpress mi capita spesso perché non ho ancora un account registrato (sarebbe ora, però!). Grazie 🙂

        • nadia

          ciao, ho controllato ma non ho nessun commento nel blog, se ti registri e lo rifai lo leggo volentieri.Grazie Silvia per lo spazio che ci siamo prese, e scusa.

    • nadia

      Premetto che da donna molte paure le ho ereditate, vuoi la famiglia, vuoi la cronaca, vuoi la mia passione per i noir…ecco io ho tra le tante paure, una quasi paralizzante che si lega all’acqua, non so se sono riuscita nell’intento di liberarmi del tabù, ma di certo ho sofferto.

      Una giovane donna si trova sperduta nel quartiere parigino di Montmartre, intorno a lei una scura coltre di buio, non solo della notte incombente, ma della calma apparente a celare i movimenti notturni di una città che non dorme mai. La giovane cammina fra i vicoli costeggiando un lungo muro umido, ha paura, una paura che le fa sentire forte ogni fibra del suo corpo entrare in collisione con la realtà esterna. Ogni sussurro nasconde un pericolo, ogni ombra un malintenzionato. La sua mente registra la mole di informazioni che le arrivano davanti, mentre veloce si avvicina ad una casa. Nonostante cerchi di calmare a fondo i brutti pensieri, sente avvicinarsi il brivido paralizzante della paura contro cui nulla può.
      Respiri irregolari prendono il loro posto stabilizzandosi dentro e facendosi spazio rendendola sempre più fragile. Finalmente entra in un portone, una casa dall’aspetto rassicurante, nonostante i muri scrostati ed il forte odore di muffa, ma è pur sempre un portone aperto in cui cercare riparo. Un luogo chiuso. Sale le scale, alla ricerca di una sicurezza che non le appartiene più, comincia a intravedere una luce, ma dentro sente l’ansia paurosa continuare a salire. Sopraffatta da mille e più spilli, che le penetrano la mente con immagini pericolose di ciò che ha sempre temuto, apre la porta malandata per accorgersi di essere capitata in mezzo ad un bar frequentato da uomini ubriachi.
      Le sue paure più recondite trovano visi e mani a concretizzarle, gli odori che le insinuano le narici sono la precisa conferma delle intenzioni malvagie di quegli uomini che si avventano su di lei: la vogliono rapinare, forse abusarne. La donna urla di terrore, un urlo che veloce si disperde tra i vicoli di Montmartre correndo alla disperata nella ricerca di orecchie disponibili, ma il quartiere tace, immerso nel suo lento addormentarsi. Il suo urlo è soffocato dalle mani di quei maniaci che la legano, brutalmente la strattonano fino a buttarla in un fiume, per vederla sulla riva divorata dai topi. Sono empie le loro intenzioni, mentre ridono soddisfatti di essersi liberati di lei.
      La donna sente arrivare la fine, inesorabile, il respiro è smorzato dal bavaglio che le impedisce di affannarsi, il cuore le pulsa feroce nel petto, mentre intorno tutto prende a vorticare velocemente. La paura è ormai completa padrona del suo corpo. Trema come se il freddo le impedisse di reagire, immobile e terrorizzata aspetta il momento preciso in cui i suoi occhi percepiranno la fine. E’ una tortura l’attesa. Finché lenta sprofonda nell’acqua, comincia a dondolare avvertendo la delicatezza di quella inaspettata carezza. Di colpo la paura la afferra di nuovo, smorzando ogni resistenza. Si sente soffocare. Lei non sa nuotare, quell’acqua dal tepore strano sarà l’ultimo elemento con cui lottare, una lotta già persa.
      Chiude gli occhi per non ricordare il mondo lassù, in cui la luna si specchia come una vanitosa assassina nell’acqua. Lentamente sente sciogliere la tensione, lentamente come il suo discendere nel fondo del fiume, dove le pietre le solleticano i piedi, dove il tocco del letto la obbliga a incassare il colpo. Il gelo delle ossa è talmente intenso da averle ghiacciato anche i pensieri. Ogni paura mai immaginata le si è concretizzata davanti. La vita in una sorta di ultima beffa gliele ha messe tutte davanti.
      Arresa decide di emettere il suo ultimo respiro, ingoiando l’acqua che le renderà la fine tanto temuta. In quell’ultimo atto di coraggio si ritrova impavida a cercare la forza di riaprire gli occhi.
      Una mano la scuote, si sveglia, finalmente la voce amica del dentista: «Tutto fatto signora. Mezza corona, prego!»

      • E brava Nadia! La più coraggiosa ha rotto per prima il ghiaccio con le sue paure! 🙂

    • Jessica Zaccari

      Secondo me non esiste il tabù, basta non essere troppo volgari e si può scrivere tutto.
      La nostra lingua ha modi diversi per dire le cose, senza essere volgari o scatenare un putiferio.
      Questo è il mio pensiero, non so se mi trovate d’accordo.
      La nostra bellissima lingua, ha tante di quelle parole da usare, che possiamo scrivere qualcosa che per gli altri è un tabù. E poi credo che oggi, non dovrebbero stare tabù.
      Dovremo conoscere per quel che è il nostro mondo, anche tramite i tabù e un modo per conoscere meglio la vita, sia nel bene sia nel male.
      Non possiamo solo conoscere una parte.. almeno come la penso io.
      Non so se mi troviate d’accordo sul mio modo di pensarla.
      Jessica.

      • Sono d’accordo sul fatto che chi scrive non dovrebbe bloccarsi davanti a delle paure o a quelli che chiamiamo tabù. A volte però, più o meno inconsciamente, ci caschiamo lo stesso. Per questo ho proposto questo gioco: per provare a superarli.

    • Michele Scarparo

      Devo ammettere che per ora brancolo nel buio. Sarà che sono stanco…
      Ho riletto anche il post e i commenti sui tabù, ho ripreso in mano diversi autori (anche famosissimi): niente. Più che tabù, brivido e fastidio, mi sembra tutto noioso. E se trovo noiosa la scrittura di King, Easton Ellis, (per non parlare di erotico…) allora figurarsi quello che posso scrivere io.
      No, decisamente non sono sul pezzo.

    • Michele Scarparo

      È lungo. Molto lungo. E anche completamente fuori tema. Non so neppure bene perché lo stia postando, se non per il fatto che tanto non potrei usarlo da nessun’altra parte. Diciamo, quanto meno, che è un racconto fuori concorso: e non dite che non vi avevo avvisati.

      Non era colpa sua se la noia gli faceva quell’effetto.
      La grossa mosca aveva cercato un’uscita inesistente, nel bicchiere capovolto che la imprigionava, con brevi voli rabbiosi; sembrava persino rimbalzare tra le pareti di vetro, nei suoi tentativi. A volte, nei radi momenti di silenzio, si sentiva il minuscolo colpo dello scontro tra la sua testa e quella invisibile parete curva, che non la lasciava tornare da dove era venuta.
      Lui l’aveva osservata a lungo. Tanto immobile lui quanto, invece, nervosa lei. L’ebbrezza del vino aveva lasciato il posto a una noia pastosa e senza scopo, che il rumore e le risa sguaiate degli altri rendevano più greve a ogni brindisi. Brindisi cui lui non partecipava più, ormai assorbito dallo studio di quella pallottola nera che rifiutava di arrendersi.
      Si domandò per un istante se anche le mosche si annoiassero, poi accantonò la questione. In fondo, non che gliene importasse granché. Per essere sinceri, nulla del tutto. L’unica cosa importante era la noia che lo sommergeva. Che ottundeva qualsiasi altra sensazione. Che finiva per guidare la sua mano.
      Era la noia che gli aveva fatto sollevare appena il bicchiere, approfittando di un momento di stanca della mosca: aveva infilato nel pertugio le sue dita sottili, fino a incastrare l’insetto contro la parete opposta, e poi ne aveva stretto un’ala tra indice e medio. La mosca aveva vibrato, nel tentativo di liberarsi, ma lui non aveva ceduto alla ronzante protesta. Aveva stretto indifferente le dita e tirato, fino a quando gli era parso di sentire stappare una microscopica bottiglia di vino tra le sue falangi. L’insetto era rimasto immobile per un istante, frastornato dal dolore; lui aveva ritratto la mano e aveva sistemato per bene il bicchiere, ignorandone la minacciosa e furibonda reazione.
      Aveva osservato per qualche minuto i tentativi disperati di volare con un’ala sola, che si risolvevano in cerchi inutili, via via sempre più pigri. Forse erano le forze, a venir meno alla mosca. O magari la speranza. Lui non avrebbe saputo dire, né gli interessava; aveva rimirato quel brandello iridescente rimasto attaccato al polpastrello, goccia d’arcobaleno inglobata in un microscopico reticolo di venature più scure. Alla fine la noia aveva travolto anche la luce che attraversava l’ala: lui allora l’aveva soffiata via, con uno sbuffo leggero pregno di tanfo di vino a poco prezzo.
      La bottiglia vuota lo urtava, perché non poteva soddisfare la la gola ruvida che chiedeva un altro goccio; gli altri, il cui vino sembrava non finire mai, lo urtavano. Anche la mosca lo urtava, con il suo vagare tondo, dal ronzio sincopato.
      Aveva alzato il bicchiere e strappato l’altra ala. L’insetto aveva vacillato, poi se ne era rimasto immobile: indifferente al fatto che il bicchiere fosse ancora sollevato, non cercava più la fuga, come se la stessa noia avesse infine inondato la sua minuscola testolina, ricolma di centinaia di occhi.
      In cerca di un qualsiasi appiglio che gli illuminasse la serata, aveva osservato la groppa dell’insetto: sembrava esserci un qualche liquido, sopra. Che fosse sangue o vino, raccolto chissà come dal bicchiere, a lui non interessava. Come gli era indifferente osservarne gli scomposti movimenti, con le zampette che la portavano avanti e indietro per il tavolaccio, in cerca di un posto dal quale spiccare un impossibile volo.
      Ma una mosca che cammina è divertente solo per una frazione infinitesima di tempo; un istante brevissimo, prima che l’ondata di noia spazzi via qualsiasi goduria o risata o microscopico sorriso. Un desiderio di curiosità l’aveva portato a cercare di staccarle una zampa, operazione più complessa che non strappare un’ala: al secondo tentativo, la mosca gli si era spappolata tra le dita. Aveva imprecato, strofinando la mano sporca sui pantaloni luridi: adesso non c’era più nulla con il quale far passare il tempo.
      Non aveva altro da fare che aspettare che la notte passasse, per poter ricominciare a bersi quei pochi spicci che gli erano rimasti in tasca, pur di far venire notte un’altra volta. Ché, tanto, alla noia non si sfuggiva, per quanto veloce si potesse correre. Nemmeno la mosca, che sembrava tanto lesta quando ancora aveva avuto le ali, era riuscita a sfuggire alla noia. Adesso lui era solo: non aveva più nessun insetto con il quale giocare.
      Era stato in quel momento che lei era entrata: doveva certo aver sbagliato qualcosa, perché una ragazza con gonna, rossetto, borsetta e tutto quanto non aveva proprio nessunissimo motivo al mondo per entrare in un posto del genere. Forse anche lei si stava annoiando, là fuori; l’aveva guardata bene, in volto, senza riuscire a capire cosa le passasse per la testa. Anche lei era avvolta da un velo di vino, una nebbia spugnosa che la imbozzolava; un velo di vino affogato in un mare di noia.
      Poi aveva capito: con quel vestito colorato, quella non era una ragazza: era una farfalla. Una grande farfalla annoiata. Si alzò e fece due passi verso di lei. Le sorrise: adesso sì, forse, avrebbero potuto scacciare la noia tutti insieme. Lui e lei. Lui, lei, e gli altri. Lei era una farfalla e lui sapeva esattamente cosa farle.

      • Mi è piaciuta molto l’idea della mosca e della farfalla. Dal mio punto di vista non è fuori tema, per nulla. 🙂

        • Michele Scarparo

          Il thriller questo giro è tuo: se dici che è in tema, allora è in tema! 🙂

          PS: io, comunque, sono noto per scrivere thriller fuori tema. In caso di dubbi citofonare Helgaldo, che confermerà senza dubbio.

      • nadia

        Sì concordo forse è lungo, ma sei bravo accidenti! Sai cosa mi è tornato in mente? grande paragone, Kafka! Per un attimo ho riletto la metamorfosi e sentito quella delicata ala sulle mie ali. Complimenti.

        • Michele Scarparo

          Ti ringrazio molto. Un paragone impegnativo, il tuo, ma temo di esserne ben lontano. Però certi apprezzamenti non possono che far piacere 🙂
          La cosa importante, comunque, è che l’esercizio ti sia piaciuto!

          • nadia

            sì molto, ma per associazione di idee mi hai dato Kafka come paragone, certo lui è maestro, ma tu sei stato bravo. interessante ed a me piacciono le cose originali.

      • Quindi è uno degli ubriachi del bar e lei è la giovane sperduta a Montmartre. Il testo è ineccepibile, però nella prima parte m’è venuta noia pure a me ed ho corso a leggere verso il fondo (è un mio difetto, cerco più storia che descrizioni). Non ho capito ben bene il finale: è una farfalla con le ali o è una farfalla…col telecomando? 😛

        • Michele Scarparo

          In effetti l’idea era quella di far sentire la noia anche al lettore. Mi rendo conto adesso, però, che avere successo nell’operazione è un risultato quanto meno ambiguo…

          Lei è solo una farfalla che farà la stessa fine della mosca 🙂

          • Uh, finale da thriller proprio allora.

    • Una giovane donna si trova sperduta nel quartiere parigino di Montmartre, è il classico tipo di donna che sembra più giovane di quanto non sia: fisico minuto, lineamenti delicati, dimostra meno di vent’anni, ma un occhio più attento noterebbe una ruga sulla fronte, che avvicina il suo aspetto all’età che ha: trentadue anni. Ed è già mamma da cinque. Una madre che cammina nella scura coltre di buio per trovare chi ha seviziato e ucciso il suo bambino: Jean di cinque anni. Ha paura, ma le hanno parlato di una casa, il quartiere generale di un gruppo di pedofili e vuole trovarla. Non è contenta del lavoro svolto dalla Gendarmerie, le hanno detto di voler attendere, di avere un infiltrato nella banda, che li aiuterà a prendere il pesce più grosso, il capo, ma lei non può aspettare. Sale le scale, comincia a intravedere una luce, si trova nel mezzo di un bar frequentato da uomini ubriachi e pensa di essere nel posto giusto. Appena vedono la donna, scambiandola per una ragazzina, si avventano su di lei, sono proprio loro, i pedofili e vogliono abusare quel corpo fresco. La donna urla di terrore: ora sa per certo cos’ha provato il piccolo Jean, rapito fuori da scuola: l’hanno legato e buttato in un fiume, il corpo trovato molti giorni più tardi divorato dai topi, presentava segni di una violenza senza paragoni. La donna comincia a dondolare, finalmente la voce amica del gendarme: “Fermi tutti! Polizia!”

      • Ragazzi, che botta. Altro che tabù superati! Bravissima, Sandra. 🙂

    • Grazie, però non ce l’ho fatta ad andare più a fondo con la descrizione delle sevizie, tabù superato a metà.

    • Avrebbe desiderato camminare più veloce. Ma la ciccia, tutto quel grasso superfluo che si scomponeva ad ogni passo, non le permetteva una vera fuga.
      Il quartiere silenzioso, colmo unicamente degli schiamazzi degli ubriachi, proiettava sui muri ombre sinistre. La donna ansimava nel suo procedere incerto. Il tonfo dei propri passi pesanti sul selciato produceva un rimbombo minaccioso, di cui lei stessa era costretta a sorprendersi. Sentiva sul collo il fiato molle dei suoi aguzzini. L’avrebbero sorpresa alle spalle, ne era certa. L’avrebbero sollevata e adagiata su un cofano sconquassato di un’auto in sosta. Il fragore dell’antifurto avrebbe coperto i tuoni in lontananza e le sirene della Sureté National, intente a salvare qualcun’altro che non era lei.
      Allora quegli sconosciuti le avrebbero mostrato la lama del coltello e il freddo di quel metallo avrebbe prodotto sulla sua pelle un tremito languido, come se non bastasse quello della paura. Un filo di sangue avrebbe preso a scorrere inconsapevole.
      Le lacrime si sarebbero confuse con il sangue e la vista, resa vischiosa da quell’insieme di liquidi, sarebbe diventata l’ultimo problema di cui preoccuparsi. Anzi, forse, meglio non vedere mai più.
      Le avrebbero strappato le vesti. Brandelli di collant si sarebbero attaccati alla carrozzeria di quell’automobile fredda, su cui le gambe ormai denudate avrebbero provato lo stesso effetto della carne bovina sul marmo della macelleria. Che se fosse sopravvissuta, sarebbe diventa vegetariana, non tanto per un voto propiziatorio, quanto per non pensare più allo schifo di animale macellato.
      Mani luride da carrozziere avrebbero palpato le sue cosce calde e sudate. Unghie segnate dal grasso e calli spessi, legnosi e ruvidi. Qualche cosa di grosso si sarebbe fatto strada tra le pieghe del suo corpo. Avrebbe rotto la barriera degli slip ascellari e si sarebbe spinto fin là dove finora nessuno aveva completato il suo viaggio.
      Un dolore acuto si sarebbe espanso dalle sue viscere fino alla radice dei capelli e per compensazione fino ai tendini dei calcagni, anestetizzando ogni altro pensiero. Ma poi in quel nulla assoluto di volontà sarebbe scattato qualcosa di inadatto, come una serratura aperta da una forcina, ed un piacere liquido, che non aveva mai provato prima d’ora, avrebbe inondato le sue membra lasciandole scosse, colpevoli, appagate.
      Il tonfo della porta del bar la costrinse a voltarsi e a riprendersi dalle sue fantasie. Uscì un uomo. Ubriaco. Si accostò al bidone dell’immondizia, sbottonò la patta dei pantaloni e urinò di gusto lasciando una scia liquida che si allungò dal muro fino al centro della strada. Ruttò e ritornò nel locale senza degnare la donna di uno sguardo. Fu quasi delusa da quel sintomo di disinteresse.
      Si spinse fino alla fine della via strisciando lungo il muro come una lenta lumaca e, svoltando a destra, incontrò un quartiere che cambiava improvvisamente volto. C’era da stupirsi di come nel centro di Parigi potessero trovarsi accosto quartieri lussuosi e quartieri degradati.
      Finalmente giunse alla meta. Le vetrine luminose della French Pastry Coquellicoc lasciavano adito a sogni ben più lussuriosi di quello che aveva appena fatto.
      Acquistò sei etti di éclaire e ordinò una tarte tatin per la settimana successiva.
      Lasciò un acconto di mezza corona. Tornando a casa cambiò strada. Nel buio del suo appartamento accese un musica poco nota. Sfilò il soprabito, tolse le scarpe e si accoccolò sul divano con ancora in mano il pacchetto di paste. Le mangiò una ad una succhiandole e leccandole delicatamente, facendo aderire la glassa al palato per poi spazzarla via con un rapido gesto della lingua. E solo allora fu il vero piacere.

      • Michele Scarparo

        🙂

        Certo che a mettere in piazza tutti questi tabù… Ci vorrebbe uno psicologo; ma Lisa è uccel di bosco, ultimamente. E poi, forse, meglio non sapere!

      • nadia

        Alla faccia Silvia, come dire…brr ho avuto orrore ad un certo punto. Sì la violenza l’ho percepita nelle viscere. Molto convincente.

        • Grazie! Mi piaceva l’idea di proporla come una fantasia che nasca da un insieme di paura e desiderio. Non sarei capace di proporlo come fatto reale. In più volevo giocare con l’abbinamento cibo/sesso. Ma non so se mi è riuscito.

    • iara R.M.

      Ragazzi ho letto le vostre versioni e sono emozionanti, ognuna per un motivo (tabù) diverso. Mi ha molto toccata la violenza e la crudeltà descritta da Michele, quella spinta dalla noia… Dove il dolore diventa uno spettacolo, qualcosa con cui intrattenersi.
      Sandra, tu hai descritto l’orrore di ogni madre, anche senza troppi dettagli. E tu, Silvia, hai reso concreto l’incubo di una violenza. A Nadia, che leggo per la prima volta faccio i miei complimenti, anche per essere stata la prima a provare. Sono conquistata dalla vostra scrittura. Io per ora posso fare solo un lavoro mentale (due giorni di vacanza!) ma lunedì, mi metto all’opera. Intanto vi leggo. 🙂

      • nadia

        Grazie Iara, non è davvero il mio campo, ma cimentarsi in qualche cosa di nuovo è sempre stimolante. Sono curiosa di leggerti appena ti metterai all’opera. Buon fine settimana.

      • Michele Scarparo

        Grazie iara 🙂
        Intanto goditi la vacanza; per il thriller c’è tempo: la votazione andrà a domenica 8…

      • Be’, ma grazie Iara, sempre super adorabile!
        Questa è una palestra Michele è il nostro Personal Trainer, Helgaldo il fondatore, ogni tappa ci sono insegnati diversi – almeno nel tour – e ci si prova, ecco.

      • Grazie Iara! Buon lavoro mentale. Aspettiamo la tua versione! 😉

        • Scusa, Iara, mi sono dimenticata di darti il benvenuto sul mio blog. Ci incontriamo così di frequente su altri blog che mi è sfuggito che è la prima volta che commenti. 😉

    • Accoppata dal maldidenti. Moment Act come acqua, Tachipirina così così.
      Ma rifiuto categoricamente di andare dal dentista di Montmartre… :/

      • Nemmeno io farei un giro dal dentista di Montmartre… Piuttosto me lo cavo da sola il dente! Spero che oggi vada meglio il tuo mal di denti. 🙂

        • Ho vinto un giro di antibiotico e lunedì sono sulla sedia volante. Il maldidenti viene sempre sul fine settimana, come il maltempo a maggio, perchè così gli altri giorni lavori bene…sgrumpf!
          Però sto studiando il tabù eh…per non scrivere cavolate, mi tocca studiare! 😉

      • Michele Scarparo

        Soprattutto se è quello di Silvia! 🙂
        Forza e coraggio… (PS: ma perché il mal di denti viene sempre per il fine settimana?)

      • Uh poveretta te, escluderei quel dentista pure io, ovvio!

    • Isabella

      Eccomi! Wow, che argomento impegnativo. Mi chiedo: devo scegliere quello che mi impressiona o quello che mi piace di più?
      Visto che l’argomento è il tabù, forse sarebbe più appropriato il primo…
      Comunque, bravissimi tutti! Dal risultato mi pare che io i miei tabù me li tengo belli nascosti, fino al momento in cui leggo i vostri e mi rendo conto che sì, ci sono tutti quelli di cui avete scritto e chissà che altri. Attendo con ansia i prossimi pezzi.

      • Ciao Isabella, benvenuta sul mio blog. 🙂

        • Isabella

          Grazie Silvia! E’ un piacere essere qui, questo blogtour mi sta appassionando. Ogni volta trovo persone fantastiche e blog molto interessanti! 🙂

          • Sì, questo blogtour non solo dà una grandissima opportunità di crescere, ma è anche un ottimo modo di fare rete tra blogger e lettori. Mi piace molto quest’aspetto comunitario. 🙂

            • Isabella

              Hai ragione Silvia, concordo in pieno!

    • Isabella

      Ecco il mio:
      Francesca è giovane, incapace di inforcare una strada e arrivare a destinazione senza perdersi. Non sa com’è finita nel quartiere parigino di Montmartre. L’ansia le si attorciglia addosso come il buio che la avvolge. Lei striscia fra i vicoli tastando un lungo muro, non si accorge di grattare i polpastrelli fino a consumarli. Si lecca le dita insanguinate. Sente un ululato in lontananza. Spera che l’odore del suo sangue non attiri le mostruose creature che popolano i suoi incubi di notte. Finalmente trova un portone. Il batacchio ha la forma di un lupo con ai lati della bocca due lunghi denti sporgenti; attirata da una forza oscura lo spinge, si apre. Sale le scale. Intravede una luce. Troppo tardi si accorge che l’oscurità era più rassicurante. Si trova in un bar frequentato da esseri quasi scheletrici che la fissano con luminescenti occhi ingordi. Hanno lunghi canini affilati. Bevono del denso liquido rosso da coppe dorate su cui è incisa una belva feroce. Si avventano su di lei. Puzzano di aglio rancido e piorrea. La donna cerca di scappare, ma è troppo tardi. E’ terrorizzata. Urla, ma nessun suono esce dalla sua bocca. I vampiri affondano i denti nella sua gola pulsante. Per finire il rito di iniziazione la buttano nelle fogne dove sarà divorata dai topi, solo allora potrà rinascere come una di loro. Sente che sta per vomitare, una mano la scuote, si sveglia sputando pezzi di formaggio predigerito. La voce disgustata del dentista le dice: – Mezza corona in più per la pulizia! –

    • Mi è davvero piaciuto un sacco!! Veramente disgustoso! Bravissima! 🙂

      • Isabella

        Grazie Silvia, sei un tesoro 🙂 Bellissimo anche il tuo, alla fine mi sono leccata le dita anche io. Soprattutto mi è piaciuto il contrasto fra i tabù sogni/paure e i tabù calorici/appaganti.

        • Grazie. Il mio obiettivo era proprio quello di giocare tra i vari tipi di “piaceri” e di tabù, sia quelli più espliciti (sesso, violenza) sia quelli più subdoli (fantasie erotiche, complessi di inferiorità per la propria condizione fisica, appagamento attraverso il cibo). Sono felice che ti sia piaciuto! 😉

    • La giovane donna fissava il dentista con gli occhi sbarrati. Le stava lavorando in bocca e qualcosa sembrava essere andato storto con l’anestesia. Sentiva la sua mente sospesa in un limbo in cui voci, a volte vicine, a volte lontane, davano corpo a pensieri non suoi. Aveva l’impressione di essere in mezzo a una folla vociante. E le voci andavano e venivano, perdendosi in lontananza come se un vento impercettibile le fugasse incurante. Il dentista, che lavorava imperterrito, non pareva sentire nulla di tutto ciò. La giovane donna lo fissava e lo sentiva. Non sentiva le sue mani, non sentiva il suo affondar di trapano, non sentiva la sua voce. Ma sentiva i suoi pensieri. “Stasera alla Mezza Corona avranno di che leccarsi i baffi”, pensava. “Una cena così non se la scorderanno per un bel pezzo”. E il dentista lavorava. La donna immobile lo fissava. E lo ascoltava. “Una grigliata di carne con tanto di ossa da rosicchiare”. La donna provava una strana sensazione: sentiva di doversi stupire per il fatto di riuscire a leggere i suoi pensieri. Perché era proprio quello che stava accadendo: stava leggendo nel pensiero. Eppure quella facoltà le sembrava così ovvia come se fosse la cosa più semplice e normale di questo mondo. Perché stupirsi, dunque? D’un tratto sussultò e si sentì librare in aria. Provò un sollievo irrazionale. Ora vedeva il dentista di fronte a sé, sempre chino… su di lei. La giovane donna ora si stava osservando e il dentista, ancora una volta, non si era accorto di nulla, intento com’era a… lavorare. “Ok, ancora pochi minuti e ho finito” pensò. La giovane donna guardò sé stessa con una gioia irrazionale, sentendosi radiosa, felice e soave. Libera. Si guardò intorno e sentì di poter volteggiare libera come una farfalla. Guardò di nuovo il suo corpo sulla poltrona e… dov’era finita la sua gamba? Arrivò l’assistente con un cofanetto di bisturi e seghetti da chirurgo. Si chinò sulla gamba ancora attaccata e cominciò ad armeggiare. Sembrava voler procedere all’amputazione. “Dottore” disse “il sangue lo devo raccogliere? Intendo dire: dopo il banchetto di stasera, c’è qualcuno che dovrà essere iniziato ai nostri riti?”. Il dentista che finalmente riuscì a finire il suo lavoro, mise da parte il dente d’oro per la sua personale collezione. “Non saprei, faccia come crede”. L’assistente, dubbioso, tornò sulla gamba e affondò il seghetto con malcelato divertimento. La giovane donna fissava il dentista – e il suo assistente – con occhi sbarrati. Ora fissava anche il suo corpo. E i suoi stessi occhi. Azzurri, limpidi, ignari. E sbarrati.

      P.S.: avrei voluto scrivere una piccola frase introduttiva del tipo “da leggere lontano dai pasti” ma avevo paura di bruciare il finale. 😀

      • Per fortuna, senza volerlo, l’ho letto lontano dai pasti! 🙂 Grande Darius. Raccapricciante, direi!! XD

        • … ho scelto un tabù un po’ fuori dagli schemi (forse): il cannibalismo. 😀 . Non sapevo dove “infilare” la mezza corona e alla fine l’ho fatta diventare l’improbabile nome di una setta, altrettanto improbabile, di cannibali. Almeno: spero che sia tale (la setta, dico… 😀 ).

          • Abbiamo scomodato un tabù simile, Darius!
            Lo pubblicherò più tardi!

            • Bene, bene. Spero che sia pronto per l’ora di merenda… 😀 😀 😀

              • Oh, ragazzi… credo che questo thriller cominci a causarmi qualche piccolo problemino di digestione, altro che i tabù!! XD XD

    • Silvia, con questo brano ho raggiunto il top dei miei tabù.
      (Che proprio non ci voglio rinunciare a sto Thriller! XD )

      Avvolta nella scura coltre di buio, Montmartre dorme il suo sonno tranquillo, ma un urlo ferino, all’improvviso, squarcia il silenzio della notte lasciando entrare l’incubo dentro le case della gente che abita nei vicoli angusti in prossimità del bar “Le Ciel”.
      La setta dei maniaci incappucciati si riunisce in questo locale nel giorno di chiusura per partecipare al consueto rito di iniziazione di un nuovo adepto: oggi è il turno del Dr.Enfer, giovane dentista parigino.
      Un drappo nero copre il bancone, dove sono state accese delle candele rosse ai lati di un teschio umano. Al centro della sala alcuni tavoli uniti formano l’altare sacrificale su cui è stata legata una giovane donna nuda, mentre dodici uomini biascicano invocazioni al demonio tenendo un crocifisso a testa in giù. Entra il “novizio” a braccia tese stringendo in mano un calice: al suo interno galleggia il cuore ancora pulsante di un animale il cui sangue sarà mescolato a quello umano e bevuto durante la cerimonia.
      “Ci disseteremo con il sangue della bestia che dà vita e della vergine che purifica” – ripeteva il coro di astanti – e l’Esercito Nero si inchinerà ai piedi del nostro signore Satana”.
      Dopo un susseguirsi di gesti rituali e di empie formule in latino, il dentista viene invitato ad aprire lo scrigno contenente il pugnale sacro. La donna urla di terrore strattonando polsi e caviglie immobilizzati da robuste funi. La sua voce fa schizzare via i ratti dalle loro tane lungo la riva della Senna. Poi l’adepto le si avvicina, solleva il coltello impugnato con entrambe le mani sul suo candido petto e…

      “Signore, ehi signore, allora, che fa, lo compra il libro?”
      Per mezza corona, quel giorno, portò a casa il romanzo horror della giovane scrittrice.

      • iara R.M.

        E…??? E come finisce?
        Bello! 🙂

        • E… lo chiederemo a chi ha speso la mezza corona per comprare il libro! 😛

        • Grazie, Barbara. Dovevo tirare una boccata d’aria fresca, uscire anch’io dall’incubo! 🙂

      • La messa nera ci mancava. Da giovane ebbi un momento di follia in cui avevo un interesse per queste pratiche macabre (allora amavo anche gli horror). Poi mi prese una sana fifa e lasciai perdere l’argomento, per fortuna. Bello il superamento del tuo tabù. E azzeccato il finale a sorpresa. 🙂

      • Applausi. Almeno tu ti sei fermata un pelo prima dallo squartar di gusto… 😀

        • Già mi è sembrato di toccare il fondo soltanto esprimendomi sulle messe nere…

    • iara R.M.

      Una giovane donna, una turista come tante, cammina nel quartiere parigino di Montmartre, con la sua digitale stretta tra le mani. Ha ancora il sole negli occhi e si dilunga in stradine e botteghe senza far caso all’imbrunire del cielo. Passeggia nei vicoli, fra la gente, ride, riguarda orgogliosa i suoi ultimi scatti. Sembra un attimo: una scura coltre di buio scende su tutte le cose, insieme al silenzio. Lei, ora, è persa. Non sorride più. Segue la strada costeggiando un lungo muro scrostato dalla pioggia e dal vento. Trema. Non si sente sicura. Più è spaventata, più non sa dove andare. Vede una casa, una porta socchiusa, decide di entrare. Intravede una luce in cima alle scale, sale. Basta un attimo: vorrebbe tornare indietro, cancellare uno dopo l’altro i passi falsi che l’hanno condotta in quel posto, un bar frequentato da uomini ubriachi. E’ un attimo: li vede avanzare verso di lei come un branco di lupi affamati. Scuote la testa, piagnucola. E’ accerchiata. Sente la loro eccitazione attaccarsi alla pelle, la sente mischiarsi alla sua paura e diventare più grande. Uno con la testa rasata le tira un ricciolo biondo. La ragazza si scosta tremando, ma trova altre mani. Le strappano i vestiti di dosso e la toccano ancora, sul seno, sul sedere, tra le gambe. La schiacciano sul pavimento: “fai la brava…” le intima il primo del gruppo. Lei piange, li implora di smettere, urla di terrore. Prova ad alzarsi, ma le sbattono la testa sul pavimento. Sente il sangue colarle giù per il naso, lo sente scendere per le guance insieme alle lacrime. Non ha forze, resta distesa per terra, immobile. Qualcuno ha preso la sua digitale, il flash le colpisce ripetutamente la faccia. Li sente ridere. Scattano foto e ridono. Vorrebbe che tutto finisse in un attimo. La stanno legando stretta con una corda. Le mani dietro la schiena. Le caviglie una su l’altra. Prendono brandelli della sua maglia, ne fanno una palla di stoffa e gliela ficcano in bocca. Ancora qualche attimo e lei è nel fiume. Loro dalla riva aspettano di vederla divorata dai topi. Lei, invece, non vede più nulla. Distesa sulla schiena, lo sguardo rivolto verso l’alto, sommerso a poco a poco dall’acqua. Il suo tempo scorre come in una clessidra. Respira. Un filo sottile di sabbia scivola stanco verso il fondo. E’ un attimo. Poi, più niente.

      • È stato abbastanza angosciante da tirare fuori altri tabù. Devi esserne soddisfatta, invece! 🙂

      • Ragazzi, che botta! Anche il tuo, come quello di Sandra, un bel peso! Ho apprezzato particolarmente il ritmo serrato, che non è monotono ma aumenta man mano che ci si avvicina alla scena della violenza. Molto bella anche l’immagine della clessidra che rappresenta il clima asfittico e lento con cui si consuma l’ultima scena. Brava davvero. 😉

        • iara R.M.

          Grazie Silvia. In realtà, ero partita in maniera diversa. L’idea era di iniziare con lei, nell’acqua, che galleggia e ripensa a quel susseguirsi di attimi che inconsapevolmente, l’ hanno avvicinata alla morte. È la precarietà dell’ esistenza che avrei voluto mettere sul foglio, l’oblio che ci aspetta mentre facciamo progetti. Lo so… Triste, pesante. E comunque, non ce l’ho fatta.

          • Anche a me sembra venuto ottimo. L’unica cosa che manca è sta benedetta mezza corona, ma ormai il thriller paratattico vive di vita propria!

            • iara R.M.

              Si, questa mezza corona non ho proprio saputo trovarle un posto. Ho pensato che semplicemente non ci stava. Pazienza. :-p

          • Michele Scarparo

            Perché “non ce l’ho fatta”? Mi sembra venuto bene… 🙂

            • iara R.M.

              Grazie, però l”intenzione con cui ero partita era un’altra. In questa versione risalta di più la scena di violenza. Mi sono adagiata su un tabù più comodo… Così rileggendo mi sono delusa da sola.
              Magari continuo a provare. 🙂

    • nadia

      Per quanto triste e desolante perché l’argomento lo pretende, è bello, brava.Incalzante.

    • Io ho già un paio di preferiti! 🙂

      • Michele Scarparo

        La paura è un bel motore, per scrivere: in questo giro i thriller sono stati davvero proteiformi 🙂

        • Infatti, ho un paio di paure preferite! 🙂

    • Arrivo, prometto che arrivo, non mi sono dimenticata! 🙂
      [Dente devitalizzato…sigh sigh]

      • Stavo giusto pensando che manchi all’appello!! 😀

    • Ecco il mio primo tabù. L’altro è ancora in scrittura. Ho dato la precedenza a questo perchè…lo stavo evitando. Ergo, questo è il tabù principe. E’ in prima persona perché la terza distacca non solo il lettore, ma anche lo scrittore. Mentre un tabù bisogna guardarlo dritto in faccia, senza remore.

      La luna mi guarda beffarda dall’alto. Luna piena, cattivo presagio. La stessa luna della notte che rimasi orfana.
      Continuo a camminare incerta nelle strade buie, la collina di Montmartre è sempre alle mie spalle, probabilmente sto girando in tondo senza accorgermene. Non dovevo scappare dal ristorante in quel modo. Nella foga il cellulare mi è caduto a terra e non da più segnali di vita. Devo trovare un taxi o un telefono, ma qui è un dedalo di vicoli deserti. Non c’è anima viva. E forse è un bene, chissà chi potrei incontrare in giro a quest’ora tarda.
      Mi muovo rasentando l’ombra di un edificio senza finestre, finché scorgo un’insegna sbiadita che indica un bar. Scosto la porta cigolante e poi entro. Una scala angusta e puzzolente ed un lungo corridoio mi portano fino al brusio degli avventori. Fumo, alcool e sudore come benvenuto. No, questo non è il posto giusto dove chiedere aiuto. Nella penombra, due ceffi si voltano dal bancone, lasciando da parte i grossi boccali di birra, e sorridono squadrandomi da sotto in su. “Adesso sì che ci divertiamo…” Altri tre posano le stecche sul tavolo da biliardo e avanzano minacciosi nella mia direzione. Qualcuno da dietro mi strappa la borsa, lo vedo rovistare nel portafoglio. “Un bel bottino ragazzi, non c’è che dire!” Ammutolita, cerco di indietreggiare verso l’uscita, ma con un balzo mi afferrano. Lancio un urlo a pieni polmoni, che viene coperto dalle loro risate sguaiate. Mani toccano, frugano, accarezzano, palpano, premono, sfiorano, spingono, penetrano senza ritegno. Infine mi legano, ai polsi e alle caviglie. Stordita, mi sento trascinare all’esterno, una leggera brezza sul viso accaldato.
      Finché non vengo lanciata nel vuoto. Un paio di metri nell’inconsistenza del nulla e poi l’impatto glaciale con l’acqua scura mi risveglia all’improvviso. Vengo risucchiata brevemente dalla caduta e poi con affanno riaffioro. Tossisco e sputo quanto bevuto, prima di respirare di nuovo. L’impetuosità della corrente però mi fa roteare vorticosamente, così che non ho più punti di riferimento, non distinguo la riva da raggiungere per mettermi in salvo dal corso infinito del fiume. Intravvedo solo le stelle lassù strisciare nel firmamento. La luna è fuggita. Cerco disperatamente di muovere piedi e gambe legate per tenermi a galla, mentre una forza sovrumana mi trascina verso il fondo. Non mi arrendo e lotto furiosamente. Ma sono sempre più stanca, non ho davvero mai imparato a nuotare e mi sembra di combattere una battaglia inutile. Il freddo sta per avere la meglio sul mio fisico, i muscoli cominciano ad intorpidirsi ed inizio involontariamente a tremare. Non sento più le mani strette nella corda dietro la mia schiena. Si fa strada un’atroce consapevolezza: annegare è un modo terribile di morire. Un’ondata di panico mi assale improvvisamente. No. No. NO! Non adesso! E’ troppo presto! Ho talmente tante cose da fare ancora nella vita. Sono così giovane. Solo stasera mi ha chiesto finalmente di sposarlo. E sono scappata. Dalla paura. No. NO! Ho diritto ad una seconda possibilità!
      Provo di nuovo a battere violentemente il corpo per rimanere con la testa in superficie. Cerco di incamerare più aria possibile con respiri lunghi e calibrati, così da usare i miei polmoni come salvagente. E’ uno sforzo inconcludente, i miei muscoli sono esausti. Il tremore per il freddo ha lasciato il passo ad uno spasmo lieve. Sola, abbandonata nell’oscurità della notte, sento uno strano torpore invadermi completamente, un senso di tranquillità e distacco. Il corpo si prepara a proteggere la mente dal dolore della morte. Dovrei rivedere la mia vita scorrere come in un film, a malapena riesco a scorgere i titoli di coda.
      Mi lascio cullare dalle onde rabbiose, l’acqua irrompe nelle mie orecchie lasciandomi in un silenzio ovattato, il silenzio della mia tomba.
      In un’ultima rivendicazione dell’istinto di sopravvivenza, prendo un enorme, finale respiro e serro le labbra con fievole speranza.
      Chi potrà mai venire in mio aiuto? C’è troppo buio quaggiù e chi mi sta cercando, ammesso che mi stiano davvero cercando, è dall’altra parte della città. Lentamente il mio corpo naufraga verso l’abisso.
      I miei piedi toccano per primi il fondo sabbioso. Sopra di me l’acqua diventa sempre più scura e torbida, la vita si affievolisce in un puntino di luce sempre più piccolo oltre la superficie.
      Man mano che passano i secondi avverto sempre più forte il desiderio di respirare. Non potrò trattenermi ancora a lungo. Rimango rilassata per non sprecare ossigeno prezioso. Ma i polmoni bruciano roventi, a corto d’aria.
      Non ce la faccio più, davvero. Il momento è arrivato e mi lascio andare.
      Apro la bocca e lascio uscire l’anidride carbonica a lungo compressa. Il mio petto collassa, pronto ad inalare l’ultimo istante di vita, liquido stavolta. Lascio che l’acqua mi aggredisca completamente, soffocante nella gola, urticante nei polmoni.
      Una fitta micidiale colpisce la testa, stretta in una morsa. Un dolore lancinante rimbomba acuto nelle orecchie.
      La fine è vicina. Cala il sipario, senza nessun applauso. Cesserò di esistere. Tutto ciò che sono, che ho fatto o non ho fatto sparirà nel nulla. I ricordi moriranno con il cervello. Nessuno mi rimpiangerà, non ho fatto in tempo a lasciare niente dietro di me.
      Oramai rassegnata attendo l’ultimo tonfo disperato del mio cuore.
      Piano piano la mia anima si scosta dal corpo e mi osservo serena da fuori, adagiata scompostamente nel fondale.
      Un tunnel di luce accecante mi chiama a oltrepassare, scuotendo vigorosamente la mia essenza. Una speranza.
      “Su, non fa niente. Adesso andrà meglio.”
      Ed è un attimo.
      Il lampo investe la mia vista annebbiata, lo splendore mi risveglia.
      Davanti a me il dentista sorridente, ignaro: «Tutto fatto signora. Mezza corona, prego!»

      • Mi manca l’aria. Prima di addormentarmi non è di buon auspicio per i miei sogni! Se stanotte sogno di annegare la colpa è del tuo tabù! 😉

        • Tu pensa che io l’ho letto e riscritto tutte le sere di questa settimana!!
          Ma questo non m’ha impedito di lavorare alla versione 2, quella sotto 😉

      • iara R.M.

        In apnea fino all’ultima riga. Brava!

        • Grazie! E’ stato una faticaccia scriverlo. Ogni sera rileggevo, mi immergevo, aggiungevo una riga e poi dovevo respirare e fare altro…più tabù di così!

          • Michele Scarparo

            🙂

      • nadia

        Bello, intenso e penetrante. No asfissiante. Credo siamo morte in tante con lei, per fortuna poi la mezza corona ha salvato tutte!

        • Grazie! Mi viene il dubbio: forse doveva essere asfissiante, visto il tema?!

          • nadia

            assolutamente sì, perché rende tantissimo l’idea!

      • Eccoti! Ti aspettavamo! Ottima l’idea di scriverlo in prima persona, non ci avevo pensato. In effetti è molto efficace. Complimenti! 🙂

        • Grazie! Se riesco a terminare in tempo utile l’altro, te lo mando in mail…non sono convinta sia pubblicabile (ed è parte di tabù).

    • Silvia, ti ho mandato in mail l’altro thriller paratattico tabù. Vedi tu se è pubblicabile 😉

    • Aggiungo io il secondo thriller di Barbara (oggi impegnata in una maratona), inviatomi da lei ieri sera (stranamente alle 23 dormivo già, dopo una giornata passata a tagliare l’erba).

      L’ultimo tratto lo faccio a piedi, per questioni di privacy, come sempre. Nella mano destra continuo a rigirare il mio lasciapassare per la serata, la mezza corona d’argento. Non può essere acquistata, ma solo regalata da un membro fondatore del club. Una difficile conquista.
      Indosso il vestito da sera nero lungo, con uno spacco vertiginoso, la mia collana di palline in acciaio splendente e null’altro. Niente biancheria. L’intimo è fuoriluogo in questa serata di condivisione.
      Nella borsetta, la maschera d’ordinanza. Pur conoscendo indirettamente la maggior parte dei presenti, perchè spesso nella foga le maschere si strappano, aggiunge un velo di mistero per i nuovi incontri. Gente che va e gente che viene.
      Cammino lenta per non inciampare con il tacco delle Louboutin nuove nei ciottoli della strada, rasentando il muro di cinta della villa ai piedi della Butte Montmartre.
      Attraversato l’alto cancello di ferro battuto intarsiato, il profumo intenso del gelsomino al tramonto mi dà il suo sensuale benvenuto. Il viale di ghiaia del giardino è costeggiato di candele accese, molto scenografiche. Sistemo la maschera sul viso e avanzo tranquilla verso la scalinata dell’ingresso. Ad attendermi un valletto che si aspetta di vedere la mezza corona come biglietto d’invito per la festa.
      All’interno risuona la melodia di I’ve Got You Under My Skin nella versione Michael Bublè. Nei saloni affrescati del pianterreno gli invitati si intrattengono a chiacchierare, accennare un giro di valzer, accostarsi ai tavoli del rinfresco e dei cocktail. Ma tutti stanno studiando disponibilità e preferenze dei partecipanti.
      Mi guardo intorno, in cerca del mio compagno di stanotte. Contrariamente a quanto potrebbe sembrare, non sono per la promiscuità. Ho bisogno di concentrarmi su un solo uomo per volta. E sarei molto gelosa se lui non facesse altrettanto.
      Saluto le mie precedenti conquiste, che si avvicinano per una breve conversazione di cortesia, lasciando io intendere di non essere interessata, almeno per questa sera.
      Il mio sguardo cade poi facilmente nel solo ospite in camicia bianca, che risalta in mezzo agli altri in smoking rigorosamente nero. Alto, corporatura atletica, capelli scuri, un po’ scomposti sotto la maschera, mento squadrato. Sta parlando con altre persone, apparentemente come se le conoscesse.
      Mi incuriosisce. Il suo fisico promette faville incandescenti.
      Mi giro a sbirciare i nuovi arrivi, niente di rilevante, e quando mi volto nuovamente verso di lui lo trovo che mi sta fissando. Anche lui mi ha notato.
      Mi sorride. Fa un cenno ai presenti attorno a lui e si dirige al buffet in angolo, dove un cameriere gli prepara due calici di champagne. Lo osservo di spalle. Sotto quei pantaloni c’è nascosto un sedere magnifico. Potrebbe sembrare un’antica statua in marmo, tanto risulta perfetto.
      Mi raggiunge attraversando la sala e tenendo lo sguardo fisso su di me. Occhi intensamente verdi come l’increspatura dell’acqua limpida in ombra. Terribilmente magnetici. T’imprigionano e non ti mollano.
      “Bel vestito…” mi dice con un’occhiata languida che sembra attraversare il tessuto. Mi offre uno dei calici.
      “Bella cravatta…” rispondo sorniona. Sapevo che giacca e cravatta erano d’obbligo in queste occasioni. Accetto lo champagne che mi porge.
      “Le cravatte sono oggetti molto pericolosi. Volevo evitare il rischio di essere legato.”
      Uhm, anche il suo sorriso è disarmante.
      “Non ci siamo mai incontrati. Prima volta in questo club?” Dov’era nascosto? Dove? mi chiedo.
      “In questo, si. Ho fatto un piacere ad un amico e questo è il suo modo di ringraziarmi.”
      Devo ringraziarlo anch’io, quel suo amico, penso.
      Un altro mio conoscente passa davanti a noi e mi saluta con un inchino plateale. Nel labiale leggo un “ci vediamo dopo”.
      Il mio accompagnatore misterioso se ne accorge e molto bruscamente interviene.
      “Devo dichiarare subito che non sono per la condivisione, milady.”
      “Nemmeno a me piace avere intorno assistenti. O concorrenza.” sostengo risoluta.
      “Direi che c’intendiamo a meraviglia, allora.”
      Il suo atteggiamento ritorna rilassato come prima.
      Mi porge la mano. “Vogliamo ballare?”
      E mi lascio condurre da lui nelle danze.
      Poi lentamente saliamo al piano superiore, in una delle camere messe a disposizione degli ospiti. Siamo qui per questo.
      Arredata in stile settecentesco, con un letto a baldacchino, non solo la stanza sembra eccessiva ma pure scomoda.
      Una grande specchiera dalla cornice dorata restituisce le nostre immagini ammaliate, affascinati l’uno dell’altro.
      Accarezza il mio collo e le sfere da geisha incastonate nella catenella che lo ornano.
      “Collana interessante. Però sono sicuro che non ce ne sarà bisogno. Magari la prossima volta.”
      E il mio vestito scivola a terra senza che io me ne accorga.
      Inizia a baciarmi adagio e io ne approfitto per spogliarlo a mia volta. Sbottono la camicia e i pantaloni.
      Davanti allo specchio, non posso fare a meno di notare la sua mano sinistra sul mio seno. Nel dorso dei piccoli nei formano la costellazione del Grande Carro dell’Orsa Maggiore. Che strana cosa, penso, mentre lui entra di prepotenza nel mio corpo.
      Dio…è così…meraviglioso. Si muove in un crescendo spasmodico, finchè non sono ad un passo dall’esplosione e poi si frena di colpo, riprendendo con una lentezza esasperante. Le sue mani si avvinghiano e poi rifuggono allo stesso modo sui miei fianchi. I nostri respiri si rincorrono. Lo vorrei. Ogni sera. Potrei scoprire facilmente chi è…ma se poi è sposato? Meglio non sapere. Resta solo il qui e ora.
      Si discosta completamente da me, mi osserva estasiato, si china a baciarmi e poi riprende con più vigore. Questa volta sembra non volersi fermare per nulla al mondo. Non mi lascia tempo per respirare, quasi sono in affanno, annaspo in questa mare di sensazioni assolute. Non mi da tregua. E io sto per…oddio…sto per…
      Una mano mi scuote delicatamente per una spalla. La voce vellutata del dentista mi riporta al presente.
      «Tutto fatto signora. Mezza corona, prego!»
      Mi guarda intensamente con i suoi occhi verdi mentre la sua mano sinistra stringe la mia. La osservo inebetita.
      Il Grande Carro. Nessuna fede nuziale. Sorrido.

      • Grazie Silvia, gentilissima!
        La maratona è al pomeriggio (cercano di recuperare più iscrizioni possibili dato che vanno in beneficenza). Ieri sera l’ho mandato in anteprima anche alla mia ciurma. La reazione è stata: “Ma sto dentista sempre sul più bello a scassare l’anima?” 😛

        • Eh, l’ho pensato anch’io… 😛

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    Silvia Algerino

    Vivo con due figli, un marito e un gatto in una casa ai confini del bosco. 
    Dissennatamente amante della vita, scrivo per non piangere, rido perché non posso farne a meno.

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