Radio Libertà: una storia di persone

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    Oggi, 25 aprile 2019, nella ricorrenza della liberazione, vorrei raccontare una storia.

    Chi mi conosce lo sa: non solo amo le storie, ma credo nelle storie. Per questo non posso fare a meno di raccontare una. Tanto più oggi.

    Abito in un paese che – strana la vita – vide nascere la prima radio libera: Radio Libertà.

    Quando pensiamo a qualcosa di grande, importante, tendiamo a pensare che abbia avuto origine in una città altrettanto grande, altrettanto importante.

    Forse per questo mi sembra strano pensare che proprio da qui, nel mio paese, che oggi conta meno di 150 anime, a meno di 200 metri dalla mia casa, nascosta già allora dalle piante di castagno e dagli intrichi dei noccioli, partissero le voci di Radio Libertà, con l’intento di infondere la speranza a chi sognava di liberarsi dall’oppressione nazi-fascista.

    La particolarità di questa radio stava nel fatto che non era una radio militare, non serviva le truppe o i partigiani, ma raggiungeva la gente. Quelle persone che avevano pochi canali da cui ricevere informazioni, costrette a parlare a bassa voce perché il nemico poteva nascondersi ovunque.

    Non aveva una funzione – per così dire – strategica, semmai sociale. Ma non per questo meno importante: c’era bisogno di non sentirsi soli. C’era bisogno di coltivare la speranza e infondere coraggio.

    Quando cammino tra le pietre del mio paese, guardo ogni sasso. E mi chiedo che mani l’abbiamo spostato, che piedi calpestato. Come in un film, vorrei tornare indietro nel tempo e provo a immaginare che cosa possa essere successo in queste stesse case, in questi stessi percorsi, che già esistevano allora, oltre 70 anni fa, quando invece io ancora non c’ero.

    Il fatto è che io me li vedo quei quattro – un farmacista, un panettiere, un filatore e un ferroviere – chinati sulla radiotrasmittente recuperata chissà come da Cameri, a provare e riprovare all’infinito prima che le loro voci riuscissero a prendere consistenza nell’etere. Me li vedo abbracciarsi ebbri di gioia dopo mille tentativi.

    Me li immagino rispettare tutti giorni l’appuntamento delle 21 per dare notizie e speranza a chi non attendeva altro che sentire voci amiche. Me li vedo sgattaiolare fuori da casa, sfidare il coprifuoco, camminare nell’ombra, attenti ad ogni rumore e ad ogni respiro, perché anche il solo rumore di una singola, breve interferenza avrebbe potuto dare adito al sospetto.

    Se qualcuno avesse saputo che in quella casa, ancora in piedi e fiera nonostante gli anni, a poche decine di metri da me, c’era la prima radio libera italiana, la fucilazione per quei quattro uomini sarebbe stata la soluzione più naturale.

    Era il 14 dicembre 1944 quando la prima trasmissione andò in onda. Forse c’era la neve – a quei tempi gli inverni erano ancora inverni e qui, a 800 metri di altitudine, la neve non ci risparmia nemmeno adesso che le stagioni non sono più quelle di una volta, figurarsi allora.

    Senza dubbio avrà fatto freddo e avranno preso la mulattiera per frazione Trabbia, imprecando in salita, col ghiaccio che gli sfasciava i piedi.

    Saranno entrati in casa in silenzio, controllando come ogni volta che non ci fosse nessuno a notare i loro movimenti. Allora, la frazione era piuttosto abitata, non come ora che le case sono prevalentemente utilizzate per le ferie o persino abbandonate.

    Chissà se avevano intuito che quel giorno, proprio quel giorno, ce l’avrebbero fatta o se fu una specie di sorpresa. Chissà se stavano per arrendersi o se, come si vede nei film, ne fosse rimasto solo più uno a crederci e a trascinare gli altri.

    Chi lo sa. Mi piacerebbe un giorno scavare in questo passato non troppo lontano e conoscere le storie vere di quei quattro uomini: Sam, il Gamma, il Gibo e il Grifo. Li sento qui con me. Sono già i personaggi del mio romanzo.

    Il fatto è che, comunque si siano svolte veramente le cose, non riesco a non pensare alle persone.

    Per me il 25 aprile sono occhi. Occhi di persone. Di gioia dopo il pianto e di pianti che non si possono comunque placare.

    Per me il 25 aprile sono passi. Piedi sfiancati dai passi. Bende arrotolate dentro a scarpe rotte. Sosta dopo la marcia. E marcia da iniziare.

    Per me il 25 aprile sono ferite. Squarci nel cuore e tagli sulla pelle. Ferite rimarginate, finalmente guarite, e pelle straziata senza più cure.

    Ora sono proprio qui. Cammino a passi lenti sotto la lapide che ricorda Radio Libertà. Piove e il vento leggero mi riporta gli echi immaginari di tutto quello che è successo. Questo no, non è fantasia.

    Lo so che non c’ero, ma non posso comunque dimenticare.


    Per non dimenticare

    La bellissima e struggente poesia di Natalia Ginzburg, dedicata al marito Leone, caduto a causa delle torture patite ad opera dei tedeschi nella prigione di Regina Coeli.

    Memoria

    Gli uomini vanno e vengono per le strade della città.
    Comprano cibo e giornali, muovono a imprese diverse.
    Hanno roseo il viso, le labbra vivide e piene.
    Sollevasti il lenzuolo per guardare il suo viso,
    ti chinasti a baciarlo con un gesto consueto.
    Ma era l’ultima volta. Era il viso consueto,
    solo un poco più stanco. E il vestito era quello di sempre.
    E le scarpe eran quelle di sempre. E le mani erano quelle
    che spezzavano il pane e versavano il vino.
    Oggi ancora nel tempo che passa sollevi il lenzuolo
    a guardare il suo viso per l’ultima volta.
    Se cammini per strada, nessuno ti è accanto,
    se hai paura, nessuno ti prende la mano.
    E non è tua la strada, non è tua la città.
    Non è tua la città illuminata: la città illuminata è degli altri,
    degli uomini che vanno e vengono comprando cibi e giornali.
    Puoi affacciarti un poco alla quieta finestra,
    e guardare in silenzio il giardino nel buio.
    Allora quando piangevi c’era la sua voce serena;
    e allora quando ridevi c’era il suo riso sommesso.
    Ma il cancello che a sera s’apriva resterà chiuso per sempre;
    e deserta è la tua giovinezza, spento il fuoco, vuota la casa.

    Natalia Ginzburg

    Fonti:

    Piero Ambrosio – Alberto Lovatto Radio Libertà

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    10 Comments

    • È una splendida storia Silvia, che va giustamente ricordata. A quei quattro coraggiosi e a tutti coloro che non hanno perso mai la dignità e la speranza va il nostro grande grazie. Se siamo liberi lo dobbiamo a loro. Provo orrore per la rimozione della storia cui stiamo assistendo. Ma non demordo. Non possiamo farlo. In loro memoria e in memoria di tutti gli altri. Grazie

      • Grazie a te, cara.
        Non, non demordiamo ché solo la memoria e l’educazione dei ragazzi può aiutarci a cambiare le cose.

    • Giulia Mancini

      È una bella storia da raccontare in un romanzo di vita vera. Davvero struggente la poesia di Natalia Ginsburg.

      • Ho riscoperto la Ginzburg di recente. Avevo letto “Lessico famigliare” da ragazza, ma non l’avevo apprezzato quanto merita. Ho in progetto di leggere alcune opere delle grandi scrittrici antifasciste: dalla Viganò alla De Cespedes.

    • Brunilde

      Ancora e sempre la potenza delle parole, che quei quattro pazzi ( sì, ci voleva pazzia per sfidare la morte, allora, in nome di un ideale di libertà ) avevano il coraggio di diffondere con la loro rudimentale radio.
      Grazie per aver voluto condividere questa storia, che davvero merita di essere raccontata in un libro.

      • Grazie a te, cara, per avere apprezzato questo mio piccolo racconto. (Ps. mi devi poi dire dove posso trovare il tuo libro).

    • “Quando cammino tra le pietre del mio paese, guardo ogni sasso. E mi chiedo che mani l’abbiamo spostato, che piedi calpestato.”
      Anch’io lo faccio, non però nei miei luoghi dove tante cose cambiano e velocemente, ma quando sono in visita a qualche edificio storico: tocco la pietra o il marmo, e cerco di sentire chi è passato nel millennio precedente.
      Non c’ero nemmeno io, ma posso immaginare l’importanza di quella Radio Libertà…

      • Che bello toccare le pietre e sentire l’energia del passato che scorre ancora. Io non sono credente, ma per me questa è la vita dopo la vita.

    • Queste storie restano potenti anche con la polvere sopra degli anni, e sono in grado di motivare ancora animi e spero imprese. Grazie per la bella testimonianza.

      • È verissimo. Sono storie che restano nel cuore e superano gli anni. L’importante è continuare a raccontarle. 🙂

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    Vivo con due figli, un marito e un gatto in una casa ai confini del bosco. 
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