Beati gli ultimi

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    Che Martina fosse lesbica non era più nemmeno il segreto di pulcinella. Lo sapevano tutti. Da bambina era un maschiaccio, da ragazza era quella un po’ troppo mascolina, da adulta era quella a cui non piacciono gli uomini. Quando aveva deciso di andare a vivere con un’altra donna il chiacchiericcio di paese aveva preso un po’ più vigore e quando aveva cominciato a crescerle la pancia, tanto da far ipotizzare con una certa sicurezza che fosse incinta, si era passati al sorrisino. Ammiccamenti che in paese hanno un codice ben definito.

    Martina non sembrava essersene mai fatta un problema, almeno in apparenza, e non aveva mai tentato di nascondere una realtà di cui era convinta di non doversi vergognare, sebbene non sempre fosse facile girare a testa alta tra altre teste chinate a parlar sotto. Del resto era una donna adulta, aveva saputo accettare la propria natura e aveva fatto scelte scomode. Sapeva portarne addosso le conseguenze e incipriarne le cicatrici per il pudore di non lasciarle troppo evidenti al resto del mondo. In fondo era quasi una battaglia. Rialzarsi e andare avanti era l’unico modo per sperare di vincere la guerra. Almeno lei la vedeva così.

    Con la sua compagna Ethel, una donna inglese conosciuta durante un viaggio di studio durato quasi un anno, avevano creato un’intesa solida e pacifica. Erano cordiali, gentili, solari, così che anche nel paese, dove l’essere di origine straniera aggiungeva diffidenza a diffidenza, piano piano le polemiche si erano acquietate e, passato il periodo di novità, nessuno aveva dato più importanza a quella coppia di sole donne con una figlia, anch’essa femmina.

    Sofia era una bambina molto dolce e sensibile e, a dispetto di quanto si fosse ipotizzato, era cresciuta in modo perfettamente normale, come qualsiasi altra bambina del paese, vivendo con naturalezza una condizione singolare.

    A volte si chiedeva che cosa avrebbe significato vivere con un uomo in casa anziché con due donne. Scherzando, diceva alle amichette che almeno la tavoletta del water era sempre abbassata e pulita, ma che, per contro, ben due volte al mese bisognava avere a che fare con una madre in sindrome premestruale.

    Martina aveva cominciato a preoccuparsi per Sofia quando aveva cominciato ad andare a scuola. Il confronto con gli altri era il problema minore, ciò che temeva era che sua figlia dovesse soffrire per una condizione subita e che il possibile, ancorché probabile, scherno dei compagni le causasse delle difficoltà o addirittura la escludesse. Perché si sa che le colpe dei genitori ricadono sempre sui figli.

    Gli anni della scuola primaria erano trascorsi senza traumi evidenti. Ethel lavorava molto: faceva la traduttrice per parecchie aziende e spesso si doveva spostare nelle città dove avevano la loro sede. Era, per così dire, l’uomo di famiglia e raramente era presente nelle occasioni scolastiche pubbliche e, quando questo avveniva, le due donne mantenevano volutamente un timido distacco per non creare imbarazzo alla figlia di fronte ad altre persone.

    Martina, nell’ansia materna di non essere di peso per la figlia, aveva affrontato apertamente il discorso con le maestre fin dai primi giorni della prima elementare e aveva trovato comprensione e collaborazione affinché una situazione considerata  anomala non diventasse un ostacolo per la crescita serena di Sofia.

    Ma giunti all’ultimo anno di scuola primaria qualcosa aveva cominciato a non funzionare troppo bene tra madre e figlia e si era concretizzato una specie di distacco, qualcosa di irrisolto come un grumo formato all’improvviso in una preparazione che era sembrata liscia fino a un attimo prima.

    Martina non viveva più, tormentata dai dubbi e dai sensi di colpa.

    “Stai esagerando”, aveva detto Ethel una sera, prima di spegnere la luce.”E’ un periodo. Sofia è una bambina precoce, sta per entrare nell’adolescenza”.

    “Lo pensi davvero?”, aveva risposto Martina, chiudendo la porta nell’ansia che la figlia potesse sentirle.

    “Non è necessario chiudere la porta. Sta dormendo”.

    “Ho paura, Ethel”, le aveva confessato la donna, “Si tratta di mia figlia”.

    “Non è tua figlia. E’ nostra figlia”, l’aveva corretta Ethel, regalandole un senso di famiglia che stava quasi per perdere.

    Dopo quel dialogo, Martina aveva riacquistato un po’ di sicurezza, disponendosi a rimanere in ascolto ma senza dar troppo peso a quelle che la sua compagna aveva definito come esagerazioni.

    I giorni scorrevano via via velocemente, ma quello che doveva essere un momento passeggero sembrava non finire. Martina aveva iniziato ad annotarsi le situazioni che creavano imbarazzo o disagio ed era giunta alla conclusione che dovesse essere successo qualcosa a scuola.

    Sofia era molto irrequieta soprattutto la mattina prima di andare a scuola. Nonostante cercasse di dissimularli, una madre non poteva non notare i segni dell’ansia che non avrebbero dovuto comparire nel comportamento di una bambina: guardava l’ora molte volte, cercava scuse per non finire di fare colazione, interrompeva i discorsi a metà come se all’improvviso le fosse venuto in mente qualcosa di più importante.

    Una mattina, mentre Martina accompagnava la figlia a scuola, notò una tensione superiore al normale.

    “Mi sembri molto nervosa. Eppure abbiamo ripassato bene ieri. Sei molto preparata”.

    “Non è per geografia, mamma”, rispose Sofia guardando l’ora per l’ennesima volta.

    “C’è qualche problema, allora?”, si decise ad affrontare l’argomento.

    “Possiamo parlarne un’altra volta?”

    “Vorrei parlarne adesso, se ti va”, cercò di essere conciliante. Eppure doveva sapere. Doveva capire. Era certa che prima o poi Sofia le avrebbe detto che essere figlia di due donne anziché di un uomo e una donna non è cosa facile. Tanto meno in paese. Tanto meno a quasi undici anni quando non sei più una bambina, ma non hai ancora la più pallida idea di cosa voglia dire essere una donna.

    Adesso dovevano parlarne, non c’era via d’uscita. Anzi avrebbero già dovuto farlo molto, molto prima.

    “Mamma, sai, non è facile parlarne”, e intanto si voltò verso il finestrino dell’auto come a nascondere i pensieri.

    “E’ per causa mia, vero?”

    “No, cioè sì… forse sì”, balbettò.

    “Lo immaginavo. Ma non preoccuparti, affronteremo la cosa assieme”, cercò di rassicurarla la madre, benché le si gelasse il sangue nelle vene.

    Erano giunte a scuola. Martina parcheggiò. Spense il motore, ma non accennò a scendere. Guardò Sofia che aveva già la mano sulla portiera. Si appoggiò allo schienale e anche la bambina lasciò la presa, abbandonandosi sul sedile come se fosse stanchissima. E negli sguardi non si distingueva più chi fosse la figlia e chi fosse la madre.

    “Mamma, lo so che non fai apposta. Che tu sei così e che ognuno è fatto come è fatto. E non può cambiare la sua natura, vero?”. Ed erano parole dolorosissime per entrambe. Parole da adulti pronunciate da una bambina.

    “Sì, è così, tesoro mio”.

    “E’ quello che mi hai sempre insegnato, no?”

    “Sì, è quello che ti ho spiegato tante volte, anche se so che fa soffrire”.

    Il silenzio avvolse l’abitacolo e Martina sentì i suoi sensi di colpa bussare a tutte le porte che aveva chiuso e che non avrebbe mai voluto dover aprire.

    Sofia la guardò da sotto in su e con aria innocente recitò la sua supplica “Ma certe cose non si possono cambiare neanche se sai che qualcuno ti vorrebbe diversa?”

    “No, non si può”, sentenziò Martina con uno scatto.

    “E non potresti farlo nemmeno per me, anche se sai che mi fa stare male?”, la pregò la figlia quasi fosse sul punto di piangere.

    “Vorrei, amore mio, ma non posso”, disse ingoiando il rospo dell’umiliazione.

    “Ma le altre mamme possono”, protestò la bambina.

    “No, non possono. E’ che sono nate diverse da me”. Le accarezzò la testa dolcemente.

    “Cioè, vuoi dire che sono nate puntuali?”, la incalzò la figlia.

    “In che senso puntuali?”,chiese Martina senza avere afferrato il concetto.

    “Che non arrivano sempre a scuola in ritardo come noi”.

    “Era questo che ti tormentava tanto, amore mio? Che siamo sempre in ritardo?”, Martina fece un sorriso stupido, che esplodeva dalla bocca e che tratteneva a stento una risata.

    “Sì, mamma, certo. E cos’altro? Sono l’unica che arriva sempre quando la campana sta suonando. Dicono tutti che ho una madre ritardataria cronica, non ce la faccio più”, si lamentò la figlia, sebbene l’aria sorridente della mamma le avesse già trasmesso un senso di pacatezza.

    Forse ora che l’aveva detto, non le sembrava più così importante essere puntuale.

    “Non capiterà mai più che arriviamo in ritardo. Per nessun motivo al mondo”, promise Martina, abbracciando la bambina con tutto l’amore possibile.

    La bambina si scostò e guardo sua madre in viso.

    “Forse non è così importante”, rispose Sofia. “In fondo, l’ha detto anche la nostra maestra di religione: beati gli ultimi perché saranno i primi”.

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    Vivo con due figli, un marito e un gatto in una casa ai confini del bosco. 
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