Dubbio n. 32: viene prima l’autore, la storia o il metodo di pubblicazione?

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    In queste ultime settimane mi pare che il dibattito, peraltro sempre accesso, su quale sia il metodo di pubblicazione migliore abbia ripreso vigore sui lit-blog, incalzato da quello che è considerato un metodo nuovo, ovvero il crowdfunding.

    C’è chi continua a sostenere che l’unico da prendere in considerazione sia quello che avviene attraverso le case editrici tradizionali, c’è chi si sgola per spiegare che non si debba parlare tanto di autopubblicazione quanto di autoeditoria, c’è chi paragona il crowdfunding alla, detestata da tutti, EAP.

    Inoltre, collegato a questi stessi temi, ritorna in auge il dibattito se debba venire prima la storia o la richiesta di mercato e se sia più importante l’autore o chi lo pubblica.

    Insomma, come barcamenarsi in un modo editoriale sempre più confuso e ristretto, ove il rischio di fregatura, sia per il lettore sia per l’autore, è molto alto?

    L’equivoco tra contenuto e contenitore

    A me pare di poter dire che alla base di queste discussioni ci sia un equivoco.

    Editoria tradizionale, autoeditoria, crowdfunding e persino EAP sono semplicemente degli strumenti che, alcuni più altri meno, si adattano a ciascuno di noi secondo le nostre caratteristiche personali, le nostre aspettative e le nostre capacità. Ma in sé non sono sufficienti né a definire la bontà di un’opera né a garantirne o meno il successo.

    Riguardo al tanto criticato self-publishing finalmente sta prendendo forza l’idea che più che di autopubblicazione sia necessario parlare di autoeditoria. Solo gli autori che avranno le capacità e la lungimiranza di sostituirsi ad una vera e propria casa editrice e svolgere con la collaborazione di professionisti tutte le azioni che attengono al processo editoriale avranno fatto un buon lavoro e la loro opera potrà aspirare a raggiungere il successo.

    Tuttavia, a mio giudizio, non ha importanza se molti che si affidano al self non siano in grado di farlo o non lo facciano. Ciò non dovrebbe screditare una categoria almeno tanto quanto nell’immaginario collettivo gli incidenti stradali non dovrebbero portare all’assioma che le automobili non vanno utilizzate.

    Voglio dire, il fatto che finora tra le opere autopubblicate un’alta percentuale sia di basso livello, non vuole dire che chi si accosta all’autoeditoria necessariamente non ha una buona opera da offrire. Tanto più che questo strumento di pubblicazione porta con sé una vera e propria filosofia, peraltro già piuttosto diffusa tra gli indie anche in campo musicale e in campo cinematografico.

    Decidere di fare da sé non è automaticamente segno di mancanza di umiltà né di scarsa qualità, semmai indica la volontà di voler gestire in autonomia, attraverso il supporto di professionisti, un processo editoriale che non sia necessariamente schiavo delle logiche di mercato che guidano le case editrici tradizionali.

    Allo stesso modo, riguardo al crowdfunding c’è un’enorme confusione tra il metodo e il portale che lo propone. Attualmente in Italia, a fronte di numerosi portali di crowdfunding (da Eppela a Produzioni dal basso, da Be crowdy a Upspringer) esiste una sola casa editrice che si basa sul crowdfunding.

    Mentre le prime che ho citato permettono di raccogliere fondi per autopubblicarsi, Bookabook è una vera casa editrice che utilizza il crowdfunding come metodo di selezione del prodotto. Il che non solo è molto lontano dalla editoria a pagamento, ma richiede mentalità diverse e un modo diverso di approcciarsi alla pubblicazione.

    Che poi le varie piattaforme, così come gli autori in crowdfunding, applichino bene o male il sistema a cui si appoggiano non deve essere discriminante del valore del sistema stesso.

    Chi è più importante: l’autore, la storia o il metodo di pubblicazione?

    Anche in questo caso, a mio giudizio, la domanda è mal posta. Perché si tratta di categorie concettuali diverse. È come se ci si chiedesse se è più importante il contadino, la frutta o il mercato.

    Il contadino (autore) è colui che produce, la frutta (il libro) è il prodotto finito, mentre il mercato è lo strumento di vendita.

    A mio parere, non è questione di importanza perché sono tutti e tre elementi importanti, anzi fondamentali, senza ciascuno dei quali, gli altri non hanno senso di esistere.

    Tuttavia sono anche dell’idea che sia il prodotto a fare veramente la differenza, ma tutelare il produttore e scegliere il miglior strumento è essenziale per ottenere un buon prodotto.

    Meglio non fare classifiche

    Allora, alla luce di tutto ciò che abbiamo detto finora, penso che non si debba parlare di precedenze, cioè su chi venga prima, semmai si potrebbe discutere senza posizioni aprioristiche su che cosa sia più adatto.

    Ogni autore, in questo modo, potrebbe scegliere il metodo di pubblicazione più vicino a lui e al suo modo di sentire senza la paura di essere tacciato di incapacità o di pressapochismo solo sulla base di un pregiudizio e libererebbe molto tempo dalle discussioni sterili, tempo che potrebbe investire sulla sua storia e sul suo processo di pubblicazione.

    Così facendo, non vivremmo tutti meglio?

    Se ti è piaciuto, condividilo!

    21 Comments

    • Grilloz

      La storia (la frutta), senza di essa il contadino zapperebbe la terra per nulla e il banco al mercato resterebbe vuoto 😉
      Poi è chiaro che se il contadino non è capace può anche avere i migliori semi del mondo ma ne ricaverà frutta i scarsa qualità e che se il fruttivendolo a un microscopico bachetto nascosto e per giunta è scorbutico non riuscirà a vendere neanche la frutta più saporita 😛
      Poi, naturalmente, ci vuole qualcuno che la frutta la mangi, perchè se quella frutta, seppur gustosa, non piace a nessuno… ad esempio mio fratello è l’unico che io conosca a cui piacciano i mapi, e infatti non riesce più a trovarli.

      Delle organizzazioni di Crowdfunding che hai citato l’unica che conosco è produzioni dal basso perchè ci si appoggio PescePiratA per le pubblicazioni di un’autrice cresciuta sul forum e di un paio di raccolte (entrambe prima che divenissi capitano) e in entrambi i casi la pubblicazione avvenne con un editore.

      • Esatto! Ogni elemento ha una sua importanza fondamentale e senza ognuno degli elementi gli altri non hanno senso di esistere. Detto questo, anche a me piacciono i mapi, ma mi sa che siamo solo in due in tutta Europa!
        Sul crowdfunding, forse non mi sono espressa bene, quello che intendevo è che spesso si confonde la tecnica con l’uso che ne viene fatto dalle piattaforme. Bookabook attualmente è l’unica piattaforma che sia anche essa stessa casa editrice. Molti non apprezzano questa commistione di ruoli tra piattaforma e casa editrice. Senza entrare nel merito della questione, trovo però errato identificare il crowdfunding tout-court, che è una pratica con una grossa storia e filosofia alle spalle, con Bookabook, che è una delle tante piattaforme, sebbene una piattaforma sui generis.
        E a maggior ragione dire che il crowdfunding è assimilabile all’editoria a pagamento sulla base dell’utilizzo che fa del crowdfunding una singola piattaforma diventa un errore concettuale ancora più evidente. Non so se ora mi sono spiegata meglio. 😉

        • Grilloz

          Ora conosco il secondo amante dei mapi 😀 potreste fare una petizione 😉
          Sì sì, avevo capito, era solo una piccola precisazione sul cenno al selfpublishing, nel senso che il crowudfunding non mira solo al selfpublishing 😉

    • Ciao Silvia, fai bene a chiarire con fermezza e competenza le tue idee su editoria indipendente, classica e a pagamento. Il crowfunding, la nuova frontiera dell’editoria, l’ho definita così in un post sul mio blog, può essere una risorsa valida per gli emergenti. Come ogni novità ha bisogno di essere digerita e metabolizzata. Anch’io ritengo che si debba perseguire la strada che si sente più consona alle proprie corde. A me, per esempio, l’editoria indie spaventa perché non mi ritengo all’altezza di organizzare il marketing di un libro

      • Ciao Rosalia e grazie per l’apprezzamento. Hai perfettamente ragione sul fatto che come tutte le novità va metabolizzata. Andrò volentieri a leggere il tuo post.
        Secondo me, almeno inizialmente, più che avere le capacità di organizzare il marketing, è importante avere l’entusiasmo e l’umiltà di imparare a farlo, sempre ammesso che un autore sia interessato a farlo. Poi gli errori li facciamo tutti, però è anche una bella avventura. 🙂

    • E’ come chiedere se viene prima l’uovo, la gallina o il pollaio, no? 😀
      Però mi piace di più l’esempio degli incidenti automobilistici che non fermano l’utilizzo delle auto “cum grano salis”.
      Per non parlare di tutte le volte che “ah, ti piace la moto? eh, io avevo un amico appassionato di moto, ma poi s’è tagliato le gambe durante un giro sulle Dolomiti…alla terza impennata non è riuscito a tenere la curva…” Non tutti i motociclisti usano la strada come una pista da gara.
      E mi sembra che il gioco sia proprio questo: ragionare sulle “categorie” per cliché. Se è un self-publishing si dà per scontato che sia una lettura pessima. Se è editoria tradizionale allora dev’essere proprio la “crème de la crème”. L’editoria a pagamento sono solo degli sfigati che non vuole nessuno (in realtà, il problema dell’EAP è che spesso gli autori non sono consci della rete in cui sono caduti: se l’autore è conscio di pagare per il servizio di stampa, e accetta il gioco, va bene; ma se gli fanno credere che quella è l’unica editoria possibile, quella è una truffa).
      Non ultimo il crowdfunding: adesso i lettori si mettono in testa di scegliere loro i titoli da pubblicare? Ma siamo pazzi?!
      Non è un fatto curioso che gli stessi blogger che sberciano imperterriti contro l’uso dei cliché nella scrittura, sono poi quelli che maggiormente li utilizzano nelle proprie opinioni? (ovviamente sempre a difesa di questa o quella categoria, cioè quella a cui appartengono o sperano un giorno di appartenere)
      Il punto è che è più facile criticare, che costruire. Quand’ero stagista di un grande manager, mi insegnò una regola aurea: non si parla mai male della concorrenza. Se te lo chiedono, tu devi anzi dire che la concorrenza fa altrettanto un ottimo lavoro, ma evidenziare le differenze in positivo della tua offerta. Il venditore che maligna sull’operato altrui ha perso un’occasione.

      • Sì, brava Barbara, si finisce proprio a disquisire su chi sia nato prima, se l’uovo o la gallina.
        Poi, sai, umanamente ci caschiamo un po’ tutti – e mi ci metto in mezzo pure io – nel difendere a spada tratta ciò che ci è più affine e nello stigmatizzare ciò che con noi non ha funzionato o non ci piace. L’importante è essere consapevoli di certi pregiudizi e di cercare di limitarli per non danneggiare il prossimo.
        Grande regola quella del manager di cui parli: di certo essere corretti con i competitor non solo è più producente che malignare, ma restituisce anche un’immagine migliore di sé come professionisti. 😉

    • Non esiste la strada giusta per chiunque, ma la strada giusta per ognuno che per fortuna è diversa. L’importante è conoscere bene il percorso che si vuole intraprendere. Sottoscrivo ogni singola parola.

      • Silvia

        Dici bene: anche il fatto che non tutti siamo portati per la stessa strada è una ricchezza, in fondo. 🙂

    • Credo che ogni curiosità e ogni dubbio siano legittimi e che le opinioni di tutti non siano da mettere in discussione: le esperienze personali possono essere diverse, ti fai un’idea che appunto la tua esperienza ti porta a confermare, invece di fronte a una novità indaghi per saperne o capirne di più. Se sul selfpublishing ho, nonostante tutto, una posizione particolare (che non intacca la validità di opere buone), il crowdfunding per me è una realtà nuova, di cui conoscevo l’esistenza, ma che sto toccando con mano da poco grazie alla tua opera e a quella di Nadia.

      • Esatto, Marina, sono perfettamente d’accordo. Ognuno vive esperienze personali diverse in linea con ciò che sente. Io, lo ammetto, sono sempre stata scettica nei confronti del self-publishing. L’esperienza che mi ha fatto cambiare idea è stata quella con Buck e il Terremoto al fianco di Serena. Solo lì ho capito che stavo confondendo uno strumento con le opere e mi si è aperto un mondo. Detto questo, non so se sarò mai in grado di gestire un’autopubblicazione, né se mai lo farò, però ora ne conosco il valore in sé e apprezzo molto di più chi lo fa.
        Per quanto riguarda il crowdfunding, mi ci sono buttata perché mi piaceva la filosofia che lo sostiene. Io e Nadia siamo tra le prime ad averlo fatto e questo è allo stesso tempo un limite e un vantaggio. Presto ne vedremo i risultati e ti ringrazio di cuore di essere tra quelli che provano a scoprirlo da vicino. 😉

    • Daniele

      La raccolta fondi non va considerata come un modo per pubblicare, alla stregua di editoria tradizionale o autopubblicazione. Se raccogli fondi, è perché vuoi autopubblicarti e non ne hai.

      • Se parliamo di racconta fondi tout-court, hai ragione. Se invece la piattaforma ti dà la possibilità di essere segnalato a una casa editrice o, come nel caso di Bookabook, ti pubblica, allora diventa un criterio di selezione e un modo di pubblicare a metà tra casa editrice tradizionale e l’autoeditoria.

      • Questo se ti focalizzi sui soldi. Ma se ti focalizzi su chi decide la pubblicazione?
        Editoria tradizionale > la casa editrice
        EAP > l’autore
        Self-publishing > l’autore
        Crowdfunding > i lettori
        Non tutte le campagne vengono chiuse raggiungendo il goal (ergo, i lettori sono forti delle proprie scelte). Inoltre, quello che non viene messo in denaro contante, mi pare venga messo in attività di promozione, anche da parte dell’autore. Almeno così la percepisco da fuori.

        • Infatti ciò di cui non si tiene conto è che non è così automatico raggiungere il goal. Se ricordo bene i dati che ho letto qua e là, in generale le campagne di crowdfunding che ottengono un risultato positivo sono circa il 30%. E per riuscirci non è sufficiente “intortare” amici e parenti. Quindi, come ben dici tu, l’attività di promozione che va messa in campo è notevole ed è ben lontana dall’essere una scorciatoia.

    • Il tuo mi sembra un ragionamento molto pieno di buon senso. Il modo usato per far arrivare ai lettori ciò che produciamo è solo uno strumento. Il paragone con la produzione ortofrutticola è più che mai azzeccato. Chi si sognerebbe di criticare chi vende frutta e verdura al mercato? O chi vende ciò che coltiva nella sua campagna sul ciglio di una strada? Ognuno fa le sue scelte e l’acquirente decide a chi rivolgersi. E invece c’è sempre qualcuno che critica questo o quel metodo… Però io continuo a vedere che sono sempre gli addetti ai lavori a parlarne. Non credo sia un caso. Ognuno tira l’acqua al suo mulino ed è una polemica parecchio stancante.

      • Sì, probabilmente hai ragione. È in parte una questione di interessi, in parte una discussione pretestuosa. Purtroppo però credo che contribuisca a danneggiare chi fa l’autoeditore, ed è un vero peccato perché mi rendo conto sempre di più che ci sono molti selfer di valore.

    • Giulia Mancini

      Oggi può esserci confusione visto che esistono molti strumenti per un autore di pubblicare, però è indubbio che tali maggiori opportunità aprono strade che prima ce le potevamo solo sognare. Sta in ciascuno di noi utilizzare al meglio questi strumenti. Per quanto mi riguarda posso dire che senza l’esperienza del self non avrei neanche pubblicato con la Buttefly Edizioni. Essere self è molto faticoso perché bisogna fare il lavoro completamente da soli, però si è completamente autonomi, mentre con una CE si ha un supporto che permette di “rilassarsi” un po’ di più, soprattutto con la promozione, ma bisogna stare ai loro tempi. In ogni caso è possibile seguire entrambe le strade.

      • Sì, sono d’accordo. E poi credo che soprattutto fare l’autoeditore sia una filosofia ben precisa per pubblicare e ti confesso che mi attira molto. 🙂

    • Mi piace molto il tuo esempio: il contadino (autore), la frutta (l’opera) e il mercato (strumento di vendita).

      A mio parere mancherebbe però il grossista della frutta (casa editrice) che spesso sta tra il contadino e il mercato. E il mercato lo intenderei come mercato vero e proprio, non come strumento di vendita.

      Quello che a molti dà fastidio o, nella migliore delle ipotesi, lascia perplessità è il cortocircuito che si viene a creare quando il contadino decide di portare la sua frutta al mercato senza passare dal grossista (e qui si inserisce il discorso self/crowd) oppure, addirittura, quando il lettore decide di andare direttamente dal contadino a comprare la frutta invece di andare al supermercato.

      Mi pare di notare che la stragrande maggioranza delle critiche che si levano contro il self e il crowd provengano proprio da chi, direttamente o indirettamente, lavora per qualche grossista… 😀

      Tutti gli altri (che non hanno mai scritto, che non hanno mai pubblicato, che non hanno mai fatto esperienza di self o di crowd, ma anche di casa editrice) possono solo fare chiacchiere da mercato… 😛

      • Sì, ah ah, hai proprio ragione. Chiacchiere da mercato! 😛
        Come dici tu, certamente se si salta qualche passaggio (grossista) c’è qualcuno che economicamente ci perde e di conseguenza è infastidito da queste nuove forme di pubblicazione. Spero solo che con il tempo, così come in realtà già avviene nel caso dei piccoli produttori a km zero, si capisca che chi si autopubblica non è lo sfigato di turno, ma semmai un indie di qualità. 🙂

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