Venerdì sera, Parigi

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    Per oggi avevo programmato un post divertente. L’avrei intitolato “Postazione di lavoro per aspirante scrittore”.

    Avrebbe dovuto parlare della difficoltà di scrittori in erba come me di trovare il luogo di lavoro adatto per scrivere.

    Volevo cimentarmi in un articolo che avesse l’obiettivo di far sorridere, oltre che raccontare un po’ di me stessa durante una delle attività che prediligo.

    Poi, venerdì sera, Parigi.

    Mi sono interrogata per tutto il weekend sull’opportunità di scrivere un post a tal proposito.

    Il mio non è un blog di attualità, scrivere di un fatto di attualità contravverrebbe a una sacrosanta regola che prevede unitarietà di argomenti. Tuttavia, chi scrive fa un lavoro d’opinione. Inoltre, ne sono convinta, solo la cultura, la lettura, la conoscenza (che, badate bene, non hanno niente a che vedere con l’informazione!) ci salveranno.

    Pertanto, ho pensato di superare questo impasse regalandomi (e vi) un passo di un romanzo che ho amato. E, come tutti i veri amori, mi ha fatto soffrire come solo può far soffrire la vita quand’è vera.

    Mare al mattino è un racconto di una fuga. La fuga di una madre e di un figlio per scappare dalla guerra, dall’orrore, dalla morte certa. Una madre non può vedere il proprio figlio morire senza provare a fare un tentativo, sebbene folle, sebbene inutile, sebbene disperato, di continuare a vivere. A costo della propria stessa vita.

    Leggete queste parole, queste pagine, come tante altre di questo tenore. Stracciatevi il cuore, fategli un buco nero. Perché solo da lì, da quel sangue e da queste nostre lacrime, solo attraverso la Bellezza di cui la cultura è capace, potremo riuscire a risalire ed evitare altre dieci, cento, mille Parigi.

    Farid è rannicchiato addosso a sua madre sul barcone. Non si lamenta più, è disidratato. Le mani sono piene di formiche , quelle che si arrampicavano sulle sue braccia, e lui rideva, adesso sono dentro. Camminano. Sono quelle le zampe della storia?

    Jamila sente il peso del figlio che se ne va. Prima gli diceva dormi, ora cerca di tenerlo sveglio. Gli racconta una storia, quella di un bambino che diventerà grande. E’ una bugia, come tutte le storie.

    L’acqua è finita da un pezzo

    Le labbra del bambino sono creste rotte come il legno della barca. Jamila fissa quell’asola scura, deserta. Si china, fa scivolare un po’ della sua saliva tra le labbra del figlio. Il mare ormai è una miniera chiusa sulle loro teste, la casa del diavolo. Gli abissi sono saliti in superficie. E’ stata disperata, atterrita. Ora spetta soltanto il destino. L’ultima faccia della storia. La scruta, la cerca, la carne scavata dagli schizzi di sale, in un luogo dove non c’è più orizzonte. C’è solo mare. Il mare della salvezza che adesso è un cerchio di fuoco bagnato. Un cuore nero.

    Ha messo via i soldi per quel viaggio, i dinari di Omar, gli euro e i dollari di nonno Mussa, carte stropicciata e sudata. Li ha consegnati insieme agli altri per questa barca che nessuno guida. Solo un occhio di plastica e taniche di gasolio che ormai sono tutte vuote. Nessuno conosce il mare, in pochi resteranno a galla. Sono creature di sabbia.

    […]

    Mentre Farid muore, Jamila continua a stringerlo, a cantare. Non vuole che gli altri se ne accorgano, ormai sono cattivi. Ha visto i corpi buttati in mare. Ha superato la vita ed è ancora lì. Sa che tutto sommato è stato meglio così, che il suo cuore abbia retto. Il terrore era solo quello, morire prima del bambino, lasciarselo cadere dalle braccia. Fargli sentire la grande solitudine del mare. Il cuore nero.

    Margareth Mazzantini, Mare al Mattino

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