Liberarsi dei tabù: conclusioni – Postilla al dubbio n. 13

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    Il nostro lungo viaggio attraverso i tabù è iniziato ben tre settimane fa. Allora, nel mio dubbio n.13, vi chiesi come scrivere le scene tabù.

    La mia difficoltà nasce da un dubbio reale. Durante la stesura del mio romanzo mi trovo a dover superare piccole incertezze: sesso o non sesso? parolacce o non parolacce? etc etc. Così vi ho chiesto che cosa ne pensate, se abbiate tabù e come li superiate.

    Ne è nata un’interessante discussione da cui è emerso che. chi più chi meno, un po’ tutti abbiamo tabù nella scrittura, ma che desidereremmo liberarcene, non solo perché la narrativa non può essere limitata da paure o preconcetti, ma anche perché è un utile esercizio per noi stessi anche nella vita reale.

    Così ho colto la palla che stava rimbalzando verso di me dal blog di Michele e ho proposto un thriller paratattico per esercitarci sull’argomento: liberarsi dai tabù.

    E’ stato un esercizio piuttosto arduo, almeno per me. Comunque impegnativo per tutti, tanto che si è proposto di estendere i tempi per la preparazione dei racconti rispetto alla consuetudine e solo oggi avremo i risultati della votazione.

    Poiché i miei post sono preparati con anticipo, mentre sto scrivendo non ho ancora idea di chi vincerà (un sospetto fortissimo. però sì) e quindi non me ne voglia il vincitore se non lo cito.

    Vorrei però dire qualche parola sui racconti in concorso, proprio per trarre qualche conclusione dopo il nostro percorso.

    Quasi tutti i racconti proposti parlano di violenza. Li ho riletti attentamente prima di scrivere questo post e ho elencato, in ordine sparso, le violenze declinate in tutte le varie forme possibili: violenza sessuale, annegamento, omicidio, sevizie, tortura, cannibalismo, sacrificio umano, vampirismo, morte. Alcuni racconti ne contengono più di una. Soltanto in un caso (il secondo racconto proposto da Barbara) la violenza è esclusa, tanto che addirittura il protagonista non porta la cravatta proprio perché, come viene detto espressamente, con la cravatta si possono legare le persone. Non viene quindi nemmeno prevista una pratica sadomaso, in cui la violenza non sarebbe fine a sé stessa ma assumerebbe un altro significato: quello del dare e ricevere piacere. Barbara ci sta parlando di sesso, ma non quello tra due innamorati, bensì quello tra sconosciuti. Un tabù dentro ad un altro tabù: se già non è semplice parlare di sesso tout-court, ancora di più lo è parlarne al di fuori dei canoni previsti dalla società.

    Di sesso in realtà parlano anche altri (ne ho parlato anch’io nel mio racconto) sebbene la differenza dal racconto di Barbara consista nella consensualità dell’atto piuttosto che nella costrizione. Negli altri il sesso si accompagna alla violenza sessuale.

    Siamo di fronte a due tipi diversi di tabù: quelli che nascono da paure o da avversioni e quelli che nascono da desideri. Ma mentre di solito le paure e le avversioni sono comuni (infatti quasi tutti ne abbiamo parlato) e sono personali di chi scrive, i desideri non sono necessariamente quelli di chi li racconta, ma del personaggio di cui si sta parlando.

    L’equivoco che crea il tabù (e questa considerazione me l’ha suggerita Barbara in un commento, quindi: grazie) è il fatto che chi scrive possa temere che chi legge interpreti certe scene come espressione della vita reale o del desiderio dell’autore. O per lo meno che possa giudicarlo un depravato solo per il fatto di aver pensato a certe cose.

    Parlare di violenza è un discorso che, bene o male, affrontiamo con noi stessi. Cioè nel nostro privato ci mettiamo a tavolino e proviamo a superare la paura, la repulsione, l’orrore provocati da certe scene che non vorremmo proprio scrivere, anzi nemmeno dover immaginare. Sandra, per esempio, in un commento, ammette di aver superato a metà il suo tabù in quanto non sarebbe riuscita a spingersi in descrizioni più dettagliate di quanto abbia fatto. Io invece ho spostato l’attenzione dalla violenza al cibo e ho dato una connotazione diversa al mio racconto facendo intendere che la violenza immaginata fosse anche un po’ desiderata. Probabilmente il mio non voleva essere solo un gioco narrativo ma un tentativo di dire a me stessa: guarda che non è successo davvero. Molti altri hanno scelto una specie finale-salvezza, come se si fosse trattato di un sogno o di un libro. Se non ricordo male, solo il finale di Iara è un vero finale tragico. Quello di Michele lo lascia presagire.

    Ci sarebbe da osservare che è anche la traccia proposta a spingere su un finale a sorpresa (quindi tutti giustificati) però mi chiedo (e vi chiedo) se non ci sia anche il desiderio di allontanare da noi l’idea  che si sia trattato di un evento solo ipotizzato e non consumatosi realmente, sebbene nella finzione narrativa.

    Parlare di sesso, invece, non è un esercizio che possiamo fare nel nostro privato, ma assume un vero significato solo facendolo pubblicamente perché ciò che temiamo non è ciò che possiamo scrivere o immaginare ma ciò che gli altri possano pensare delle nostre parole. E per certi versi è uno scrupolo più difficile da superare. Anche se, ovviamente, tutto ciò di cui sto parlando è estremamente soggettivo.

    Che cosa ne pensate, voi che avete partecipato al thriller e voi invece che l’avete solo seguito? Vi ritrovate in queste mie osservazioni?

     

    Se ti è piaciuto, condividilo!

    15 Comments

    • Michele Scarparo

      La votazione si è chiusa con meno voti, questa volta, che si sono distribuiti tra i partecipanti. Barbara, che ha avuto qualche preferenza in più, aveva però due esercizi all’attivo e pertanto non mi pare che si sia delineato un vincitore. 🙂
      Quanto al sesso, posso solo dire che ho scritto un intero romanzo erotico con scene esplicite. Tra l’altro, incentrato su un particolare tipo di voyeurismo. Non è scaricabile, ma l’hanno letto in molti che mi conoscono di persona. Anche i miei genitori: più superato di così, il tabù-sesso, non avrebbe potuto essere!

      • Ho visto questa mattina i risultati. Peccato che ci siano stati pochi votanti, forse perché era molto difficile decidere?
        Però adesso vogliamo leggerlo, eh? 😉

    • Confermo di aver superato a metà il mio tabù però non ho intenzione di riprovarci, non credo tanto al discorso che un buon autore debba essere in grado di scrivere laqualunque, la narrativa è un campo molto vasto, uno dei miei miti Ellery Queen sarebbe stato capace di raggiungere livelli alti anche con un rosa? Mi sa di no. Tutto sommato, anche se è un altro genere di tabù, aver parlato a lungo delle mie debolezze/sconfitte ne Le affinità affettive, mettendo in piazza cose molto intime, penso possa venir considerato un superamento di tabù. Io l’ho vissuto in questo modo almeno.

      • Condivido quello che dici. Tra l’altro, se ben ci si pensa, ciò che uno scrive deve andare nella direzione che gli è più consona. Io non credo che scriverò mai né gialli né thriller. Quello di cui probabilmente dovrei liberarmi è il timore di ciò che gli altri potrebbero pensare nel caso scrivessi scene particolarmente hard.
        Ecco forse il vero superamento dei tabù è quello di non mettersi né da una parte limiti né dall’altra costrizioni. Come dire: scrivo quello che ho voglia e come ho voglia.

        • Infatti nel mio post ho scritto: “Uno scrittore dovrebbe essere in grado di scrivere qualunque cosa, senza porsi alcuna limitazione. Che poi gli riesca meglio lo sviluppo di alcune storie rispetto ad altre dev’essere una questione di preferenza ed opportunità. Ma non di paura o convenienza.”
          Ed è un insegnamento che mi arriva da Oriana Fallaci, che scriveva bene sia d’amore (ma non rosa) che di guerra (parecchio autobiografico però). E comunque non parlo di interi libri, ma di scene. Stephen King scrive solo horror (qualcuno più, qualcuno meno), ma penso sia capace di scrivere anche una scena d’amore se ci si mette.
          La creatività non deve avere freni. Poi la direzione la decidi sempre tu.

    • nadia

      Ritrovo tantissimo il commento in cui si relega il racconto al suo autore, ed i lettori finiscono con l’attribuirgli idee, opinioni e scene tabù o meno, costringendolo a contenersi. Questo purtroppo è un limite del lettore, perché in realtà chi scrive per quanta empatia ci metta nel sentirsi cucito addosso il personaggio è anche vero che si stacca poi. Non sono suoi i pensieri o i tabù, o magari lo sono in partenza per poi trasformarsi nel corso del racconto…
      Personalmente sono consapevole di non aver dato del mio meglio nell’esercizio, ma lo ammetto, essendo la prima volta mi sono tenuta molto a distanza dal tabù. Se solo fossi stata più precisa, sarei morta annegata soffocando davanti alla tastiera. No, no.
      Però il fatto di dover a tutti i costi in un racconto scrivere parolacce o scene di sesso o violenza, penso non sia obbligatorio. Se lo richiede il racconto ok, è quasi naturale, per dare una connotazione corretta al personaggio o alla scena, ma altrimenti no. Fuorvia dallo stile personale. A me non vengono bene le parolacce scritte ad esempio e quando le leggo spesso mi infastidiscono. Però è anche vero che se mai ambientassi un racconto in un carcere piuttosto che in campo giovanile, ecco quelle sarebbero prassi…

      • Come dicevo a Sandra, probabilmente l’equilibrio sta nella libertà di non mettersi limiti ma anche in quella di non imporsi nulla. Se tu ambientassi un racconto in un carcere perché ti interessa quell’argomento, probabilmente automaticamente saresti poco infastidita dal dover utilizzare un certo linguaggio, altrimenti sceglieresti un’altra ambientazione.

    • Grazie Silvia della citazione 🙂
      Sulla scrittura di scene esplicite (che poi, studiando il mio testo, c’è poco di esplicito, per lo più illusione) il tabù non è la scrittura, ma la pubblicazione. Che non è la lettura ai pochi, famigliari e beta-reader, ma la pubblicazione libera di vagare in ogni dove, soprattutto verso persone che NON ci conoscono (Michele, quando pubblichi??? 🙂 )
      Il giorno dopo in ufficio mi hanno tolto la vita, più che divertiti. Qualsiasi parola dicessi, erano battutine e fraintendimenti (tenete conto che sono l’unica donna…) I parenti non l’hanno letto. O se l’hanno letto evitano di esprimersi (perchè? boh!) Mia madre l’ha letto ieri ed essendo molto di chiesa temevo il peggio. Invece il commento è stato: “bello, mi è piaciuto, hai descritto una vita mondana eccentrica…” Cioè, lei che ha schifato le 50 sfumature diseredandomi, ha letto questo. Ogni scarrafone è bello a mamma soja.
      Per il finale della prima versione, l’annegamento, non l’ho salvata perchè così dice il testo originale, e nemmeno perchè io mi sia frenata nell’ammazzarla. Ma una delle poche regole che mi sono imposta, è che nei miei testi non muoiono innocenti (hai capito, zio William?!)
      Un’idea che mi viene così su due piedi: la ragazza è un’assassina ed una ladra fuggitiva e questa volta si, affonda. Niente luce però a chiamarla, solo ombre dall’inferno.

      • Silvia

        Pensa che io non faccio mai leggere ciò che scrivo alle persone che conosco (eccetto i miei beta). Credo che mio marito non abbia mai letto nulla di mio. Ma se dovessi dirti il perché non lo so. La vivo come una cosa privata.
        Sì, mi ricordo. Forse in un commento avevi detto che la tua regola è che non muoiono gli innocenti. Io sono molto più crudele, anche perché i miei personaggi non sono mai totalmente innocenti o colpevoli. Tant’è che alla mia vittima del thriller ho dato una connotazione per lo meno ambigua nel momento in cui sembrava che desiderasse la violenza, oltre che temerla. Non so perché mi venga naturale questo aspetto. Forse tante letture di Stephen King mi hanno condizionata nel pescare nel torbido.

    • Penso che sia vero che, alla fine, tutto si riduca al pudore di un giudizio esterno: io non ho difficoltà a descrivere una scena di sesso, ma se penso che qualcuno un giorno potrebbe averla sotto gli occhi e pensare a me che l’ho scritta mi vengono i brividi. Vergogna? Imbarazzo? Sembrerebbe come mettere in piazza la propria intimità? Sì, è come se fosse così, perché sfido chiunque a non pensare anche solo per un secondo che quello che viene raccontato in un libro sia in qualche modo legato all’autore.
      Non parliamo di proporre la lettura a membri della famiglia! Io con i miei genitori ho un distacco quasi patologico: non riuscirei mai a mettergli in mano un libro pieno di scene di sesso!
      Invece parlare di violenza mi disturba: avrei materialmente problemi a descrivere scene efferate o di sofferenza altrui. Nel thriller io mi sono buttata sulle messe nere perché sono una cosa che aborrisco e che non concepisco in nessuna forma, nemmeno nella finzione cinematografica o narrativa che sia.
      Poi, tutti gli altri tabù erano stati sviscerati e ti dico pure per chi ho votato: ho dato la mia preferenza a Michele perché ho trovato orribile il trattamento riservato a quella povera mosca! (Vedi, niente violenza, nemmeno alla più insulsa creatura della terra! ) 😀

      • Mi ritrovo molto in ciò che scrivi. Credo che mentre il pudore di un giudizio esterno sia un limite che dovremmo cercare di superare proprio per non fermarci di fronte all’opinione altrui (cosa che non vuole dire che per forza dobbiamo parlare di sesso, ma di sentirci liberi di farlo nel caso in cui lo ritenessimo opportuno), invece il rifiuto della violenza (o di altre tematiche connesse) non sia necessariamente un limite, ma anche il frutto di una scelta. Come già detto in altri commenti da altri, mica per forza dobbiamo tutti scrivere thriller.
        Un conto è dire: per crescere professionalmente nella scrittura supero la paura del giudizio altrui. Altro è costringersi a toccare argomenti che ci feriscono nell’anima. Scrivere prima di tutto deve essere un piacere. Condividi?

        • Assolutamente!
          La cosa strana, o forse no, è che da giovane, come detto in più di un’occasione, mangiavo pane (cioccolato) e film horror: la violenza mi faceva orrore ma la vivevo come una sorta di catarsi, cioè curavo altre cose, proiettando nella violenza delle scene che non mi perdevo (altroché voltarmi dall’altro lato) il malessere che mi portavo dentro. Roba che uno psicologo ci andrebbe a nozze. Adesso che sono una persona serena e soprattutto risolta, la violenza è un disturbo e i film dell’orrore un orrore che non mi conquista, perché non hanno più alcuna utilità per me.

          • Anch’io ho fatto un percorso simile, anche se so esattamente quando è stato il punto critico: quando è nato il mio primo figlio. E anche qui uno psicologo ci andrebbe a nozze.
            Finché non avevo figli, vivevo l’horror o la violenza in genere come qualcosa di immaginario, come se a me non potesse capitare. Quando sono nati i bambini, tutte le paure legate a loro e a quello che avrebbe potuto succeder loro (dal cadere dal seggiolone all’essere rapiti al supermercato) si sono concretizzate nel rifiuto di ciò che è violento. Non guardo più nemmeno il telegiornale. Leggo i giornali perché le immagine televisive violente, di cui siamo bersagliati, mi infastidiscono.

    • iara R.M.

      L’esercizio proposto mi ha molto coinvolta e a livello personale mi ha dato tanti spunti su cui riflettere. Nella scrittura dei tabù, ritengo che il primo giudizio da affrontare sia il proprio, poi, per estensione, quello degli altri. Se scrivo di violenza, dove mi soffermo sul piacere che prova l’avventore e non sulla sofferenza della vittima, provo disagio perché in qualche modo ho concepito qualcosa di terribile, e l’esserne stata capace mi fa sentire sporca, quasi colpevole. Questa la sensazione più forte e immediata. Io ho scritto di violenza e di morte perché nel mio finale non volevo il lieto fine. Nella realtà, quella che ti spacca il cuore, il lieto fine non c’è quasi mai, ed era di quello che volevo raccontare. Volevo trasmettere l’angoscia che prova chi sa di non potersi salvare e di chi rimpiange l’attimo della scelta sbagliata. Nel tentativo di scrivere ho provato molte emozioni contrastanti e il risultato non è molto riuscito per come era nelle mie intenzioni, però l’esperienza è servita e per questo vi ringrazio.

      • Grazie a te per aver partecipato. Questo esercizio e la conseguente discussione mi da dato, grazie al vostro contributo, molti spunti di riflessione.
        Interessante l’aspetto che metti in luce, a cui non avevo pensato. In effetti anche nel caso della violenza può sorgere l’equivoco che la crudeltà dell’aguzzino sia in realtà dell’autore, sebbene sotto forma di immaginazione o di desiderio.
        Ecco un altro dubbio del giovedì che potrebbe nascere: dobbiamo porci il problema di non essere identificati con i nostri personaggi o dobbiamo fregarcene altamente? Quali vantaggi o danni potrebbero arrecare alla nostra scrittura questi atteggiamenti?

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    Vivo con due figli, un marito e un gatto in una casa ai confini del bosco. 
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