La telefonata (racconto)

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    Il suono della sveglia perfora il mio sonno, diventato da qualche tempo un guscio fragile. Che giorno è? Lunedì, forse martedì. Un giorno di lavoro, per gli altri. Lo capisco dal fatto che a fianco a me il letto è vuoto. Giorgio è già andato a lavorare. Chiara dorme nel lettino. Il suo respiro increspa il lenzuolo. Lei tiene la mano sul cuscino, lo stropiccia appena. Gliela bacerei.
    Resto nel letto ancora un po’, non ho altro impegno se non stare qui. Mi dicono di non intestardirmi a puntare la sveglia. Giorgio, mia mamma, le amiche: “Dormi almeno mentre dorme lei”.

    “Fa niente”, dico io. Voglio tenere il ritmo, essere pronta per quando tornerò a lavorare.


    La stanza è un quadro. La luce entra sghemba attraverso le righe della tapparella. Non inonda l’ambiente, lo scava. Il rumore del traffico rimane di sottofondo, anonimo come le mie giornate.
    Mi tiro su a sedere sul bordo del letto. Le spalle stanche, curve. I capezzoli dolenti. In bocca ho il sapore dolciastro di caramella al miele. L’ho addentata qualche ora fa. Mi girava la testa. Un po’ di zucchero, grazie. Ne ho ancora un rimasuglio appiccicato ai denti. Nel naso, l’aroma di miele si mischia a quello di latte materno e di pannolini da buttare. Diventa conosciuto e sgradevole. Forse è solo la mia immaginazione.

    No, non l’avevo immaginata così la maternità. Vedevo solo i fiori, non le spine.
    Era un giorno di primavera e non avevo consapevolezza dell’inverno, del buio, del silenzio che sarebbero venuti.
    Avevo guardato la striscia colorarsi e mi era scappato un sorriso. Maddai! Nulla più. Non l’avevamo cercato, ma non avevamo neanche fatto nulla per evitarlo. Amavo le sorprese e le novità non mi spaventavano. Ero andata in ufficio a passi veloci. Il mio capo aveva una notizia per me. La vita girava rapida. Avevamo chiuso un importante contratto con una ditta straniera. Le mie proposte erano piaciute. Ci eravamo accaparrati una campagna pubblicitaria di parecchie migliaia di euro. Avevo sbattuto le mani tra di loro come fosse un battito d’ali di farfalla. Se fossi stata in un ambiente un po’ più informale avrei fatto un saltello.
    “Se tutto va bene, tra nove mesi voleremo a Parigi a brindare all’anteprima della campagna”.
    Avevo spalancato gli occhi, come punta da un’ape, e mi ero portata una mano davanti alla bocca.
    “Che c’è, qualcosa non va?”, mi aveva chiesto il capo.
    “Scusa, mi è venuto in mente ora che ho dimenticato a casa il cellulare”, avevo barato, cercando di far passare per una banalità quello che era una vera preoccupazione. Io per quella data avrei avuto un altro impegno.
    Avevo finto per qualche mese, poi la gravidanza era diventata evidente. Sebbene non fossi così magra da non poter nascondere qualche etto sotto vestiti abbondanti, la pancia aveva cominciato a rendermi ridondante, le nausee inequivocabile.
    Il capo mi aveva consigliato di prendermi una pausa. In fondo ero una free-lance, chi me lo faceva fare di sbattermi tanto?
    Lui, una sostituta, l’aveva trovata in fretta. Giovane, carina, brillante. Sono volati a Parigi insieme, l’altro mese, mentre io cambiavo i primi pannolini alla mia bambina.
    Non sono gelosa, certo. Invidiosa però sì. Nonostante le rassicurazioni del mio capo.”Sei tu la numero uno, brinderemo alla tua bambina!”. Intanto loro festeggiavano al Jazz Club Etoile, io guardavo uno stupido talk-show alla tv sperando che Chiara si addormentasse, consolandomi con la tenerezza dei suoi vagiti.

    Da allora è passato un tempo indefinibile, una manciata di settimane che mi sembrano anni.

    Mi alzo dal letto, le gambe indolenzite. Che ore sono? La luce non ha l’angolazione solita, sembra tardi. In casa non ho orologi, uso la sveglia del cellulare, che ora giace sul comodino. Lo prendo in mano. C’è una chiamata a cui non ho risposto. Capisco solo ora: sono rimasta addormentata, quella che mi ha svegliata era una telefonata. C’è un nome sul display: Marco. Non so chi sia. Accidenti a me e alla mia dannata abitudine di non registrare i cognomi in rubrica. Mi sforzo di ricordare. Allungo la lista dei parenti, amici, conoscenti. La srotolo. Inclino la testa a destra, a sinistra, faccio scrocchiare le vertebre, massaggio i pensieri. Poi, come se finalmente avessi infilato la chiave nella serratura giusta, sento uno scatto in qualche zona ombrosa del mio cervello: Marco Milani. E’ fatta.
    Milani è un cliente dell’azienda per cui lavoro. Tutti gli anni, in questo periodo, viene dalla sede centrale di Torino e passa in città in visita alla filiale della propria azienda, che è proprio a due passi dal mio ufficio. Ci prendiamo un caffè assieme e buttiamo giù qualche idea per la campagna della nuova stagione. Ho sempre avuto il sospetto che abbia un debole per me. Immagino che il capo gli abbia detto che ho partorito da poco, ma lui ha sempre preferito lavorare con me.

    Marco ha una pessima abitudine. Non avverte prima. Telefona dalla macchina mentre è già in viaggio. Guardo l’ora, sono passati venticinque minuti da quando ha chiamato. Tra meno di un’ora sarà in città. Non ce la farò mai ad essere in ufficio in così breve tempo. Chiara dorme, dovrei svegliarla. Cambiarla, vestirla per uscire, allattarla. Prendere l’automobile, correre in centro. Non se ne parla. Ha pure iniziato a piovere. E ho un indifferibile bisogno di fare una doccia calda.
    La casa è un disastro, anche se volessi non potrei invitare Marco a venire qui. I piatti sono ancora nell’acquaio, sporchi. Ieri sera Giorgio ha detto “Lascia stare, faccio io”. Poi è crollato addormentato sulla poltrona. Sono le ultime parole che ci siamo detti.
    Qui sotto casa, all’angolo, hanno aperto una nuova caffetteria. E’ elegante, pulita, fa un po’ bistrot francese. Potrei proporre a Marco di trovarci lì.
    Arrivando dall’autostrada per lui non è troppo fuori rotta e il tempo risparmiato mi concede di prepararmi e svegliare Chiara. Rinunciando a lavarmi i capelli e allattandola al bar ce la posso fare. Ho voglia di uscire, di parlare di lavoro, di bermi un buon caffè del bar.

    Mi metto a sedere comoda, mi raccolgo i capelli, dritta come se dovessi suonare Chopin al pianoforte. Due bei sospiri. Compongo il numero.
    Marco risponde subito, forse aveva il telefono in mano per richiamarmi.
    “Ciao Giulia, come stai?”
    “Una meraviglia. Solo un po’ indaffarata, tra bambina e lavoro”, mento spudoratamente.
    “Ho saputo che sei diventata mamma, congratulazioni!”
    “Grazie. E’ una bellissima esperienza, sono felice”.
    “Spero di non averti disturbata così di prima mattina”.
    “Non ti preoccupare, ero sveglia. Di che cosa avevi bisogno?”.
    “Oh, niente. E’ che ho sbagliato numero. Cercavo un’altra Giulia. Accidenti a me e alla mia abitudine di non registrare il cognome nei contatti”.

    Aggancio il telefono. Una riga di delusione mi attraversa il viso. Non ho tempo di pensarci, Chiara si è svegliata. Non piange, mi guarda sorridendo. Le sorrido anch’io mentre la prendo tra le braccia.

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    28 Comments

    • Molto bello e molto ben gestite le contraddizioni femminili, quel farsi i film prima del reale accadimento e l’effetto sorpresa finale. Cambierei la definizione di esperienza rispetto alla maternità, è un termine che vedo associato spesso e ehm lo trovo inadeguato alla portata della cosa, ma questa è solo la mia esperienza, del resto si sa, è il mio nervo scoperto. Un bacione

      • Sai che ti do ragione in pieno? “Esperienza” è un termine non solo abusato, ma per nulla adatto, anche se è probabile che in dialogo reale verrebbe utilizzato e, forse, proprio per questo l’ho scelto in automatico ma, concordo, a sproposito.
        Per il resto, felicissima che ti sia piaciuto. Anche se abbiamo stili molto differenti, per me tu sei un po’ la mia maestra. 🙂

        • Ma va! Però ti promuovo 😀 ora che ho scritto promuovo ho pensato che il termine ha un doppio significato: scolastico ma anche pubblicitario. Anche tu promuovi me, quindi!

          • Sai che proprio mentre promuovevo te ho pensato al duplice significato di questo verbo? 😛 Queste coincidenze mi inquietano. Chiederò a Chiara un quadro astrale urgente per capire un po’ di più queste mie telepatie…

    • la seconda “esperienza” era “impressione”, oggi sono stonata. Scusa.

    • nadia

      Io non sono troppo obbiettiva, mi spiace!
      Chiunque legga il mio commento penserà che oltre ad essere di parte sia anche un po’ svenevole nei tuoi confronti…pazienza.
      A me piace, molto.
      Mi piace perché purtroppo hai toccato tasti dolenti. La maternità non è tutta quella pappina sdolcinata che raccontano nelle pubblicità, nei libri, nelle favole. La maternità è molto più simile ad un libro oscuro in cui non sai cosa starà per accadere della tua vita, non sai se essere sincera e raccontare cosa ti passa per la testa, non sai se trattenerti e vivere di luce riflessa dimenticandoti di esistere…e molto di più. Qui il tuo personaggio è alle prese con la doppia se stessa, madre e donna e sta cercando di farle convivere. Ardua impresa. Ovviamente se il tuo racconto continuasse svelerebbe la riuscita o meno. La telefonata è davvero uno scorcio interessante che apre molto piacevolmente lo sguardo sul tuo modo di scrivere, accattivante da bere con scioltezza e che ritengo crei dipendenza, di quelle letture che ti tengono avvinghiata fino alla fine.
      Sei il mio idolo lo sai! Brava!

      • Infatti, tu non sei per niente obiettiva!! 😛 Comunque grazie di cuore. Le tue parole fanno benissimo al mio morale!! 🙂

        • nadia

          uffa! non sono obiettiva, ma non sono nemmeno la sola a pensare che questo racconto sia bello, ben fatto e tremendamente giusto! Quindi immergiti nei complimenti e continua così!

    • Paolo (Seme Nero)

      Tecnica di scrittura impeccabile, dialoghi credibili e storia molto ben presentata.
      Difficile immedesimarmi appieno, ma alcuni parallellismi mi fanno avvicinare alla protagonista.
      Bravissima! ^_^

      • Grazie, Paolo, e benvenuto sul mio blog. Le tue parole mi inorgogliscono, tanto più perché dette da un uomo verso una storia tutta al femminile. 🙂

    • Bravissima Silvia. Io sono fissata con le parole giuste al posto giusto e non ne ho trovata una fuori posto!
      Il racconto è bello, anche l’effetto finale è riuscito. Ho letto il racconto mentre aspettavo che mio figlio uscisse da scuola. Ho dovuto interromperlo, però, quando lei riceve la telefonata di Marco, perché mio figlio è arrivato e ho ripreso la via del ritorno. Durante il tragitto ho provato a immaginare come potesse continuare la storia e sai cosa ho elaborato? Che questo tizio fosse, in realtà, qualcuno che nella sua vita aveva contato molto e che tornava a cercarla dopo tanto tempo. Lei combattuta tra il desiderio di rivederlo e gli obblighi di maternità alla fine fa una scelta. Quella giusta.
      Che, per me, sarebbe stata comunque la maternità. Una strada tutta in salita, verissimo, ma bella e unica come poche cose nella vita. Lamentarsi di orari, nottate, poppate a tutte le ore, piangere sulle occasioni perse, sentirsi sfigate perché non si può più fare questo o quello… tutte inezie di fronte all’evento straordinario che non toglie a una donna, ma la completa.
      Tutto, TUTTO, diventa secondario.

      • Vorrei sapere perché ogni tanto le mie risposte vengono risucchiate da wordpress. Ti avevo già risposto, ma ri-rispondo volentieri.
        Grazie per l’apprezzamento, prima di tutto.
        Anch’io avevo pensato a una svolta come dici tu, poi ho pensato che non volevo che Giulia dovesse fare una scelta, ma che dovesse subirla.
        Nella vita capitano situazioni di questo genere in cui si è quasi in balia delle azioni altrui o della situazione che si è venuta a creare. Io volevo che la mia protagonista si rendesse conto che quella che pareva una sfortuna, uno smacco, poteva diventare una fortuna, se solo interpretata nella giusta misura. Alla fine di questo piccolo episodio non è più la stessa persona perché la riga di delusione che le attraversa il viso presto diventa un sorriso. Il riscatto giunge non da una scelta, ma dall’accettazione della maternità con ciò che essa comporta, nel bene e nel male. 🙂 Almeno questo è ciò che intendevo comunicare.

      • Marco Amato

        Marina non imbrogliare, di’ la verità, hai interrotto alla telefonata di Marco perché hai associato me e hai pensato: oddio, è una persecuzione. 😀

        • Ahah, una deliziosa persecuzione, Marco! 😀

    • Bel racconto. Onesto (come diceva il buon Carver), forte, con un finale solo a prima vista amaro. Lei è una che combatte.

      • Il mio messaggio era proprio quello. L’amaro della vita è comunque proporzionale a quanto noi facciamo per trasformarlo in dolce. E questo l’ho imparato anche dai tuoi racconti. 😉

    • Mi sono piaciute molte alcune espressioni come:
      1. La luce entra sghemba attraverso le righe della tapparella. Non inonda l’ambiente, lo scava
      2. Mi metto a sedere comoda, mi raccolgo i capelli, dritta come se dovessi suonare Chopin al pianoforte.
      3. Non sono gelosa, certo. Invidiosa però sì.

      Hai trascritto molto bene il flusso di coscienza, il personaggio si sente e si sentono tutte le sue paure.

      Secondo me, per quanto possa valere la mia opinione, è un buon racconto.

      • Silvia

        Grazie mille. Sono felice che tu abbia scelto proprio le frasi su cui ho lavorato maggiormente per dare profondità e realismo alle descrizioni. Sono quelle che preferisco anch’io. 🙂

    • Marco Amato

      Finalmente ho trovato il tempo per leggerlo, l’ho tenuto in caldo da ieri.
      Quel che mi piace è la delicatezza. Ci fai entrare nella stanza in punta di piedi, per concentrarci su di lei. E la vediamo bene nei gesti lenti, nelle espressioni, nell’avvertire quel qualcosa di irrisolto che contraddice ciascuno di noi.
      E’ il tuo primo racconto che leggo. E so già che mi piacerebbe proseguire. 😉

      • Onorata da questo tuo commento. Grazie, Marco. 😉

    • Ben scritto, giuste le parole, ottimo il montaggio delle scene.
      Purtroppo l’argomento non è nelle mie corde. Per un verso mi ricorda uno sketch di Teresa Mannino a Zelig (di cui però non trovo il video), dove raccontava la differenza tra il prima e dopo l’annuncio: prima le amiche le mostravano solo il lato sole-cuore-amore dell’essere madri, dopo l’annuncio avevano iniziato col terrorismo dell’evento (“vedrai come ti gonfi…e i dolori…e sempre in bagno…e il parto? uhhh, non ne parliamo…”) Devo dire che c’ho riconosciuto qualcuna! 😉
      Dall’altro canto, l’argomento lavoro vs maternità, mi ricorda una puntata di Ally McBeal, che se non erro suscitò anche qualche scalpore. E’ la puntata 2.19 “La gara di ballo”. Ad una donna viene negato l’avanzamento di carriera dopo essere diventata madre. Lo studio di Ally difende la controparte, sostenendo che non è discriminazione per lo stato di madre, ma perchè, dovendo seguire la famiglia, la donna ha diminuito le ore lavorative, con un “calo di produzione”. Quella che colpì all’epoca era l’arringa di Nellie (collega di Ally) che, priva di desiderio di maternità e famiglia, chiede alla giuria perchè una donna che mette la famiglia davanti al lavoro deva essere gratificata come chi, come lei, ha fatto la scelta opposta. Sarebbe una discriminazione al contrario, lei dice. Non ricordo come finì la puntata, presumo che abbiano previsto il favore della donna perchè un paese che non favorisse le madri è un paese che non cresce (….uhm, Italia??)

      • Eh, lo so che è un argomento che non ami. 😉
        Il mio obiettivo era proprio quello di superare certi stereotipi intorno alla maternità, quella cioè raccontata sottolineando unicamente gli aspetti sdolcinati o quelli visti come terrificanti.
        Qui volevo raccontare il senso di inadeguatezza che una donna prova dopo il parto. Che poi è un fatto assolutamente normale: si vive una condizione nuova a cui bisogna prendere le misure per poterla affrontare con serenità. Tutto si ridimensiona presto e quando ti rivedi in quelle situazioni un po’ di tempo dopo, come capita a me ora, ti fa un po’ sorridere il fatto di aver interpretato come insormontabili certe difficoltà.
        Il bello è che ognuna di noi ha un modo diverso di essere o (di scegliere di non essere) madre. E non c’è un modo giusto o un modo sbagliato. Ciò che è sbagliato (a mio giudizio) è la pretesa che il proprio metodo sia l’unico giusto.
        E’ quello di cui parlo nel mio romanzo. E se tu un giorno lo leggerai (anche se non ami il tema), spero che apprezzerai proprio questo concetto. 🙂

        • Son qua che lo aspetto, il tuo romanzo! Ho guardato anche ieri, ma risulta ancora in editing (oh, ma quanto ce mettono??) 🙂

          • Eh, ad essere sincera quanto ce metto io. Non sono ancora soddisfatta. Riscrivo e tagli continuamente. Tra un po’, più che un romanzo, sarà un racconto in sei parole. (E il titolo ne ha 5!!!)….

    • Poi ci sono i gusti dei lettori, immagino!
      Io, per esempio, ho preferito la versione di Silvia, questa è troppo asciutta, non saprei come definirla meglio! L’altra, “più spiegata”, accompagna di più dentro quella situazione, qui sembra che tutto porti velocemente al malinteso in chiusura, perde un po’ di musicalità. È come percepire troppo l’eco del tuo stile.
      È una mia impressione. Certo, se avessi scritto io questo testo e ricevessi la tua versione, metti, da editor, entrerei fortemente in crisi.
      Chiederei a Silvia: cambieresti la tua versione con questa?

    • Scusa, Silvia, ho postato da te un commento che andava al post di Salvatore.
      Cancellalo, vado a ricopiarlo di là! 🙂

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    Vivo con due figli, un marito e un gatto in una casa ai confini del bosco. 
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