Dubbio n. 7: errori o espressioni del nostro stile?

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    Gli aspiranti sono cocciuti. Quando un lettore beta o un editor segnala qualcosa che non funziona nei loro scritti, si impuntano arrampicandosi sui vetri per dimostrare che i loro errori non sono tali, ma che, anzi, c’avevano pensato e la loro prosa è accattivante proprio grazie a quella caratteristica che, se non l’hai capita, è colpa tua.

    Dico questo non per superbia, ma perché mi sento parte della categoria.

    E di questa serie di errori ne ho una bella esperienza.

    Il punto è che, al di là di quegli errori talmente evidenti che non val nemmeno la pena di discuterne, ci possono essere tutta una serie di peccati veniali che ci mettono di fronte ad un amletico dubbio: me ne frego e vado avanti perché l’ho scritto così, va bene così e fa parte del mio stile oppure mi inchino alla regola, faccio ammenda e correggo?

    Agli scrittori affermati, nel limite dell’accettabile, è tutto un po’ permesso. Perché se sono affermati vorrà ben dire che la il loro stile è piaciuto ad una casa editrice, prima, e a un pubblico, poi. Per noi che siamo principianti non valgono le stesse concessioni, perché non abbiamo ancora conquistato nessuno.

    Infatti il nodo è proprio lì. Se certe leggerezze o peccati veniali vengono accettate, o, ancor meglio, apprezzate, allora ecco che entrano a far parte di uno stile, con buona pace di chi storce il naso.

    Ma a noi, quanto è concesso? Quali errori ci possiamo permettere, rendendoli parte del nostro stile?[su_spacer]

    Errori o segni di uno stile?

    Ne abbiamo già sentito parlare: non solo nei manuali di scrittura creativa, ma anche qua e là nel mondo del blogging.

    A volte si spacca il capello in quattro per capire se siano o meno errori.

    Ma tra concetti ormai diventati quasi legge e opposte opinioni, il dubbio rimane. [su_spacer]

    Scelte grammaticali e sintattiche

    Partendo dal presupposto di conoscere con sufficiente competenza la nostra lingua madre, ognuno di noi si è già trovato di fronte alla possibilità di fare una deroga alla regola generale per motivi stilistici. Questo può avvenire sia per la grammatica, sia per la sintassi, sia per la punteggiatura. Escluderei l’ortografia che, ci piaccia o no, è quella. A meno che non sia nostra intenzione riferire il linguaggio scorretto di un personaggio.

    Per quanto mi riguarda, spesso cado nell’erroneo cambio di soggetto. Cosa che, quando viene fatta consapevolmente, diventa una figura retorica: l’anacoluto. Le figure retoriche io le amo. Per dire.[su_spacer]

    Figure retoriche

    L’aspirante ne usa a bizzeffe. Metafora, sinestesia, allitterazione, litote, fioccano come la neve tra le piane pagine non rumorose… Eh? Appunto. Usate in questo modo non vogliono dire niente. Invece:

    Dolcezza si rispecchia ampio e quieto Il divino del pian silenzio verde

    (Giosuè Carducci, Il bove)

    Da mi basia mille, deinde centum

    (Catullo, Carmina)

    Don Abbondio (il lettore se n’è già avveduto) non era nato con un cuor di leone.

    (Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi)

    In questi casi hanno senso, eccome! D’altronde, Manzoni, Carducci, Catullo. Mica Silvia Algerino. Se sono diventati tali, ci sarà un motivo.[su_spacer]

    Modi di dire

    Ecco un altro errore su cui cado di frequente. I modi di dire, proprio perché cristallizzati in forme già abusate, non aggiungono niente di nuovo alla narrazione. A meno che vengano utilizzati in un modo che esula da quello classico. E’ possibile? Non lo so. Non mi viene in mente nessun esempio celebre. [su_spacer]

    Descrizioni

    Nei secoli scorsi si usavano molto di più e erano ben tollerate, soprattutto quelle paesaggistiche. Il che era giustificato dall’assenza di altri mezzi che mostrassero fisicamente l’ambiente dove si svolgeva l’azione. Ora che, grazie ai mezzi tecnologici, abbiamo già visto tutti i luoghi possibili e immaginabili anche senza esserci stati, certa dovizia di particolari pare un po’ inutile. Soprattutto se non è funzionale alla storia.

    In genere le descrizioni dovrebbero essere costruite più attraverso cenni evocativi che non raccontando nei particolari, eppure abbiamo celebri eccezioni. Murakami, di cui ho letto solo 1Q84 e per ora mi è bastato, indulge abitualmente in lunghe descrizioni che non sempre sembrano così funzionali alla trama. Eppure Murakami piace anche per questo.

    Anche Stephen King è, a mio parere, un mago delle descrizioni. La capacità di far immedesimare il lettore nella scena allontana ogni possibilità di annoiarsi.

    Siamo sicuri che le nostre descrizioni siano ugualmente efficaci? Le mie, certamente, no.[su_spacer]

    Ripetizioni

    Ho appena finito di leggere Aspetta primavera, Bandini di John Fante. Nei primi capitoli le ripetizioni dei concetti con le stesse parole sono talmente numerose da sembrare perfino surreali. Tuttavia ogni volta che vengono ribaditi gli stessi concetti, per quanto possa sembrare assurdo, aggiungono qualcosa di nuovo alla storia. Nel proseguo del romanzo questa tendenza affannosa si placa. Ormai siamo entrati nella storia, i personaggi li conosciamo. Non è più necessario ripetere.

    Ecco, se le mie ripetizioni fossero anche solo lontanamente parenti di quelle di Fante, sarei già una gran scrittrice. [su_spacer]

    Cliché

    Lei è bella, intelligente e arguta. Lui è un operaio di fonderia, bello e dannato. Si amano. Intorno a loro ruotano amiche e pseudo-amiche brutte, sfigate e cattive. Non è una telenovela, bensì i personaggi di Acciaio, pluripremiato romanzo della Avallone , da cui è persino stato tratto un film. La sagra dei cliché. Eppure utilizzati in modo tale da creare qualcosa di nuovo. (O no?). [su_spacer]

    Verosimiglianza

    Su questo punto va fatta una premessa: abbiate sempre presente che genere di romanzo state scrivendo. Alla fantascienza, al fantasy, allo humor in linea di massima è concesso molto di più, sebbene siano generi che non conosco bene e dove non mi addentro.

    Per il mainstream vale il principio secondo cui le situazioni che non sembrano del tutto verosimili vanno giustificate. E’ vero che nella realtà accadono cose paradossali, ma le cataloghiamo appunto come strane, incredibili, eccezionali.  Nel romanzo questo non può funzionare.

    Mi viene in mente il rocambolesco finale di Angeli e demoni di Dan Brown, di cui non dico altro per non spoilerare. Oppure certe scene di Murakami, come quella della vernice verde sul collo del tizio ucciso da Aomame.

    Però, Dan Brown. Però, Murakami. [su_spacer]

    Conclusioni

    In conclusione credo che anche a noi siano concesse deroghe dalla regola generale a condizione che ciò apporti qualcosa di nuovo alla nostra narrazione e che non dia al lettore l’impressione di una trascuratezza o di una dimenticanza. E non è detto che la nostra consapevolezza sia sufficiente. Altrimenti ricadiamo nel caso di cui ho detto in premessa: diamo l’idea del principiante sussiegoso.

    Come ottenere poi l’effetto sperato, per quanto mi riguarda, è ancora da capire.  [su_spacer]

    E voi che cosa ne pensate? Ci sono peccati veniali che volontariamente fate diventare parte del vostro stile?

     

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    50 Comments

    • Secondo me occorre fare una netta differenza tra le figure retoriche da limitare al massimo quali appunto le classiche frasi fatte, sono tante, belle ed estremamente insidiose e DA EVITARE (anche se poi scappano sempre) e quelle che danno al testo una particolare connotazione che, dai miei studi, si chiama “della prosa d’arte”, certo se si eccede diventa stucchevole, e pare che l’autore voglia vantarsi “ehi, guarda come scrivo bene”, ma molte figure retoriche quali il chiasmo, la paranomasia, l’allitterazione a me piacciono, sono molto usate in pubblicità ad esempio e nei titoli dei film. Qualche esempio: Pane e tulipani, o i titoli originali di Jane Austen come Sense and sensibility che perdono nella traduzione.

      • Sono d’accordo con la tua analisi. L’uso sapiente delle figure retoriche, oltre che un tratto distintivo dello stile dell’autore, può essere un elemento che lo innalza a livelli superiori. Il problema, per quanto mi riguarda, sta nel saperle dosare e soprattutto nel renderle efficaci affinché non sia un vezzo inutile.

    • Io personalmente accolgo sempre molto volentieri le segnalazioni di un beta-reader. Non mi arrampico sui vetri e credo che questo possa essere confermato da chi mi ha “beta-letto” :-). E’ chiaro che il beta-reader deve essere all’altezza, nel senso che lui per primo deve conoscere le regole base della grammatica italiana e tutto il resto…

      Per quanto riguarda lo stile, e al discorso di ciò che è “permesso-non permesso”, posso dire che anche a me, leggendo grandi scrittori, capita spesso di ripensare certe frasi appena lette riscrivendole mentalmente. E rimango con la sensazione che a loro, scrittori affermati, siano permesse certe leggerezze.
      Ad esempio mi capita anche solo di cambiare la posizione di qualche parola o qualche punteggiatura, o di spezzare frasi secondo me lunghe. Correzioni? No. Stili diversi, o meglio, sfumature di stile diverse tra il modo in cui scrive lo scrittore e il modo in cui il lettore (io che sto leggendo in quel momento) pensa di recepire meglio, pur avendola capita, l’emozione o la dinamica che lo scrittore ha cercato di trasmettere con quella stessa frase o brano.
      In poche parole, penso che lo stile non si discute: o piace o non piace. Non esiste lo stile perfetto, lo stile corretto, lo stile aureo. Penso che sia utile un parallelo con la pittura: ogni pittore, famoso o sconosciuto, ha un proprio stile di dipingere. Alla fine, chi osserva le sue opere, può dire “bello”, “brutto”, “mi piace”. Ma non può dire “questo stile di pittura è corretto”, “quest’altro no”. E’ come se si dicesse che Picasso ha dipinto correttamente e Botticelli no: non avrebbe senso.
      Credo che lo stile abbia una base innata e poi, nel costruirlo, occorre saper mettere volontariamente alcuni “peccati veniali” (pennellate stilistiche) facendolo in modo dosato e sapiente, perché forse sono proprio questi peccati a caratterizzarci. Bisogna essere bravi a mettere “pennellate” che rinforzano il racconto, i personaggi, le ambientazioni e non “secchiate” di colore che le offuscano.

      • Che poi, i beta-reader, spesso, sono esordienti di pari livello, ma hanno l'”occhio terzo” che funge da antenna verso gli errori altrui. Ma certo, se li segnali devi prima conoscerli! 🙂

      • La mia introduzione era volutamente ironica, tanto più che mi ci metto anch’io nel novero degli aspiranti sussiegosi. 😛
        Condivido quanto dici sullo stile e mi piace quelle che definisci come pennellate stilistiche da distinguersi dalle secchiate di colore. Mi chiedo però se certe concessioni che vengono ritenute parte di uno stile di uno scrittore famoso verrebbero accettate in un esordiente.

    • Hai sollevato un argomento interessante. Io sono convinta che certe cose che vengono comunemente considerate “da evitare” possano essere usate come segnali di stile, ma in modo consapevole. E’ un po’ come dire che le regole possano essere infrante, ma a patto che tu le conosca bene e sappia cosa stai facendo. Certo è rischioso, e non è da farsi con le regole grammaticali.
      Poi ho notato che una certa rigidità in questo senso viene sempre da chi scrive a sua volta, mentre i semplici lettori sono più possibilisti e di ampi orizzonti. Ricordo di aver usato un paio di parole nel mio romanzo un po’ fuori contesto, diciamo in maniera creativa, e due beta reader me le hanno fatte togliere. Li ho accontentati, perché ho pensato che potevano essere considerati errori anche da altri, però in realtà a me piace sperimentare e andare un po’ fuori dal seminato, non ci vedo niente di male.

      • In questo commento dici una cosa molto interessante e cioè che i lettori sono più aperti ad accettare questi “peccati veniali”, mentre di solito sono altri aspiranti scrittori (o scrittori già affermati) a escluderli dimostrando maggiore rigidità. Quindi mi chiedo: ma se al lettore medio piace che chi scrive si prenda certe libertà e, di fatto, è il lettore medio a comprare i libri, allora chi deve stabilire le regole? E noi aspiranti quanto peso dobbiamo dare a certe regole? Probabilmente il condizionamento arriva dall’eventuale giudizio da parte di una casa editrice a cui potremmo voler mandare il nostro testo. Ma anche mostrarsi timorosi di fronte a quelle che per noi potrebbero essere scelte stilistiche importanti non è un limite?

        • Domande lecite. Mi verrebbe da dirti che dovremmo avere il coraggio di non farci troppo condizionare da certe regole, ma d’altra parte questa libertà potrebbe avere il prezzo di essere ignorati dalle case editrici e censurati dagli editor. Forse come hai detto tu, bisogna essere degli Autori con la A maiuscola perché prendano le nostre licenze per uno stile e non per un errore.

          • E, come dice Salvatore, dobbiamo costruirci questa fama pian piano. 🙂

    • Non entro nel merito dell’articolo, però sfrutto l’occasione per tentare di far comprendere all’aspirante scrittore medio quanto bravo sia in genere uno scrittore affermato nella conoscenza della propria lingua. L’ipotesi è la seguente: Un bravo scrittore è anche un bravo linguista.

      Tesi:

      Saprai che in grammatica esiste un rebus riguardante il pronome attualizzante “ci” eliso o meno davanti all’ausiliare avere “ho” o “ha”. Faccio un esempio:
      «Caro, sta piovendo. Hai con te l’ombrello?».
      «Sì, ce l’ho».
      Quel “ce l’ho” è importante, dà pienezza alla frase. Se provassimo a toglierlo verrebbe così:
      «Caro, sta piovendo. Hai con te l’ombrello?».
      «Sì, l’ho».
      Suonerebbe male, giusto?
      Bene. Adesso prova a dire, o anche solo a scrivere: «Ci ho l’ombrello». Se ti suona male, significa che sei incappata nel suddetto rebus. Ora, verrebbe istintivo eliderlo: «C’ho l’ombrello»; ma si commetterebbe un errore, perché la “c” elisa davanti a vocale si legge velare, cioè: /k/. La suddetta frase verrebbe quindi pronunciata: «kho l’ombrello».
      Come si comportano gli scrittori davanti a questo rebus, allora? La maggior parte degli scrittori contemporanei lo evitano, girando la frase: «Ho l’ombrello, cara». Così da non aver l’imbarazzo di scegliere. Verga, invece, lo scriveva così: «Ci ho l’ombrello» e poi lasciava che fosse il lettore a eliderlo a mente. Paolo Nori, che a dispetto dello stile un po’ guascone del suo romagnolo è un grande linguista (traduceva la narrativa russa in italiano all’inizio della sua carriera), lo scrive così: «Ciò l’ombrello». Può sembrare un errore, e lo è anche da un punto di vista prettamente grammaticale, ma quel “ciò” scritto da lui in quel modo ci indica una competenza linguistica molto profonda e molto sensibile. Bisogna essere dei grandi linguisti per risolvere un rebus tanto imbarazzante in un modo così poco elegante ma molto efficiente. Naturalmente vale solo se usato da lui (di Paolo Nori ce n’è uno ed è più che sufficiente), quindi non emularlo.

      Tornando all’articolo, ci sono errori funzionali allo stile dell’autore e errori commessi per ignoranza o presunzione. Come si distinguono gli uni dagli altri? Si distinguono sulla base delle credenziali che lo scrittore ha accumulato. Può apparire brutto da dire, ma in fondo è proprio così che funziona. E mi spiego meglio: in uno dei racconti che ho inviato a Mondadori, ho usato l’elisione “c’ho” perché era funzionale alla parlata del narratore… Naturalmente in fase di pubblicazione, nonostante avessi scritto alla responsabile narrativa le ragioni di tale scelta, mi è stato corretto. L’avesse fatto Paolo Nori, o altri di uguale o maggiore spessore, probabilmente l’avrebbero lasciato invariato. 🙂

      • “Ciò l’ombrello” ???
        Io non ci vedo nessuna competenza linguistica, detto con cordiale simpatia :-). E’ un errore e basta. Non capisco perché se scritto da un grande linguista deve essere recepito come “competenza linguistica profonda” mentre se scritto da un esordiente, viene giustamente respinto come errore. Questo significa dare più importanza allo scrittore che allo scritto.

        Vorrei ribaltare il punto di vista. Supponiamo di essere davanti a un brano di cui non si conosce l’autore: che facciamo? Correggiamo eventuali errori, penso venga spontaneo. Poi però si scopre che il brano l’ha scritto il tal grande scrittore. E allora l’errore magicamente è permesso? Sul fatto che è così che funziona, non discuto. Ma questo non significa che è giusto che sia così. Altrimenti equivale a dire che le regole grammaticali possono essere interpretate a sentimento (cosa che io personalmente non condivido). A questo punto non è più una questione di stile ma diventa una questione di onestà intellettuale: e non sempre ci si può riparare dietro il “parafulmine” della licenza poetica.
        Lasciando stare le regole grammaticali (visto che si parla di stile), volendo fare un ragionamento di più ampio respiro mi vien quasi da pensare che tutti (editor, lettori) siano più influenzati dal grande nome dello scrittore che dall’opera in sé. Il che equivale a dire che il grande scrittore può permettersi di scrivere romanzi improponibili, tanto ci sarà sempre un esercito di lettori pronti a dire “ooohhh”, oltre a qualche editor compiacente, ovviamente più interessato alle vendite che alla qualità, anche stilistica, dell’opera … 🙂
        La stessa opera (improponibile) scritta da uno sconosciuto invece verrebbe bocciata inesorabilmente.
        Parlare di “credenziali accumulate” 😀 è un eufemismo per dire che per i grandi scrittori si è disposti a rinunciare alla propria onestà intellettuale, mentre per gli esordienti no.

        Se una persona è onesta con sé stessa (editor o lettore), dovrebbe riconoscere gli errori senza guardare in faccia nessuno.

        “Ciò” ragione o no ?????? 😀 😀 😀

        • Scusa Dario, leggo solo adesso. Provo a rispondere: se il “ciò” di Paolo Nori fosse un caso isolato su un testo altrimenti formale, allora grande scrittore o meno verrebbe giudicato quantomeno come un refuso. Nel caso specifico tuttavia quel “ciò” di agglutina con tutto uno stile prettamente smargiasso che usa un italiano regionale romagnolo così come Camilleri fa con il siciliano. Nel caso di Nori non lo si considera un errore per due motivi: 1. Perché il suo stile funziona, è omogeneo nelle sue scelte arbitrali e in definitiva piacevole (magari non per tutti); 2. Perché lui sarebbe in grado di scrivere benissimo in un italiano formale, accademico. Un po’ come nel caso di Picasso: formalmente il cubismo è un errore di prospettiva. Se lo commetto io, questo errore, è solo tale; fatto da Picasso è un marchio di stile.

          Tu suggerisci di leggere allora il testo senza conoscere l’autore. È un esperimento interessante, ma credo che alla fine non cambierebbe nulla se il testo, da un punto di vista dello stile, è omogeneo, efficiente e, soprattutto, funziona. Ed è questo, in fondo, a fare la differenza tra un professionista e un dilettante. In una parola: la consapevolezza. Paolo Nori non commette un errore, decide di scrivere in un certo modo e quel certo modo, del tutto arbitrario, funziona. Se non avesse funzionato, nessuno se lo sarebbe filato. Nessuno nasce grande e pieno di considerazione.

          Altro discorso è essere riconosciuti all’interno di un contesto culturale dagli altri protagonisti di quello stesso contesto. Un po’ di tempo fa, per il mio blog, avevo commissionato ad Alessio la stesura di un guest che parlasse dell’effetto placebo. Forse vale la pena andare a rileggerselo… 😉

        • Interessante il tuo punto di vista. Provo a dire la mia, in attesa di lasciare la patata bollente a Salvatore. Se partiamo dal presupposto che un errore è tale se commesso per ignoranza e non per scelta stilistica, il fatto che Paolo Nori sia un noto linguista lo mette al sicuro dalle critiche, in quanto ovviamente sarà a conoscenza del fatto che “ciò” in italiano è un pronome dimostrativo che non ha nulla a che vedere con “ci ho”, cosa che non è del tutto scontata per un principiante, basti vedere cosa si legge sui social (come scherzando dicevo nella risposta a Salvatore).
          Poi si può disquisire se sia una scelta opportuna o meno, ma su questo non entro nel merito perché non ho abbastanza competenza. 🙂

          • Grazie per il link. Interessante anche la soluzione c(i) ho, per quanto, credo, impraticabile. Mi chiedo anche quanti lettori capirebbero il cj ho, che, tra l’altro, trovo brutto. A questo punto, convengo con te, meglio cambiare la pronuncia e tenerci il c’ho.

            • io stavo pensando anche a soluzioni esotiche tipo: ĉ’ho o č’ho o ċ’ho o ć’ho o ç’ho, però non sono un linguista, sparo a caso 😀 diciamo segnalare in qualche modo che quella c va letta c e non k, ma alla fine sono tutte soluzioni complicate e mi pare che nell’uso comune la versiono c’ho sia la più frequente

      • Io di “ciò un ombrello” sui social ne leggo un sacco e non credo che nessuno voglia imitare Paolo Nori. 😛
        A parte le sciocchezze, un bel rebus davvero. Se posso chiedere, con cosa te l’hanno sostituito?
        Dici bene, probabilmente essere uno scrittore affermato ti mette al riparo da eventuali correzioni, cosa che a un esordiente non è concessa.
        Tuttavia mi chiedo, ma come si fa allora a diventare grandi scrittori, e non sto parlando di me, se quelli che dovrebbero essere tratti distintivi di uno stile, tali da rendere unico il proprio autore, vengono respinti e catalogati come errori?

        • Come si fa, si fa accumulando appunto delle credenziali. Si fa accumulando conoscenza e facendosi conoscere. E poco alla volta, la leggenda si diffonde. 😉

          Se non ricordo male, l’hanno corretto con: “ci ho”. Ma dovrei controllare; è passato un po’ di tempo.

          • Allora quando leggerò un tuo racconto con “c’ho”, saprò che la leggenda, ormai, si è diffusa. 😀

            • E io che pensavo che il c’ho fosse ormai sdoganato…

    • Mi hai ricordato un commento di Mozzi che suonava, cito a memoria, più o meno così:
      “lautore sbaglia il 90% dei congiuntivi, l’editor A corregge il 90% dei congiuntivi sbagliati, l’editor B corregge il 10% dei congiuntivi giusti e la definisce cifra stilistica dell’autore” 😀
      Io la vedo così, lo stile deve essere consapevole, modigliani sapeva benissimo dipingere un ritratto con le proporzioni corrette, ma il suo stile era quello di falsare le proporzioni esagerando la lunghezza del collo. Io le proporzioni le sbaglio e basta, il mio non è stile, perchè non ne sono consapevole, semplicemente sbaglio.
      Di questo te ne puoi accorgere, perchè un vero stile è omogeneo, un finto stile invece è disorganico.

      • Interessante questa tua ultima considerazione. La differenza tra stile e finto stile dipende da quanto è omogeneo. Lo terrò a mente. 🙂

        • Questo dipende dal fatto che lo stile è volontario, consapevole, l'”errore” è casuale, almeno credo sia così 😉

          • Sempre che il mio errore non sia seriale. Temo che a me a volte succeda.

    • Aggiungo solo riguardo le descrizioni, Stephen King il suo segreto lo svela in on writing, l’hai letto? 😉

      • Sì. l’ho letto ben due volte. Ora vado a riprenderlo. Grazie della segnalazione. 🙂

        • Grilloz

          🙂 in sostanza lui dice di indicare le prime quattro cose che gli vengono in mente immaginando un ambiente o un personaggio o qualsiasi cosa che lui voglia descrivere, solo che detta così è facile, poi lui fa un esempio e tu resti a bocca aperta 😀

          • Toccherà rileggerlo per la terza volta. 🙂

            • Barbara, tieni conto che uno scrittore è sempre un grande linguista e se sceglie di scrivere “ciò” oppure “ci ho” (come ha iniziato a fare recentemente Mozzi, sospetto dopo aver letto il post in cui ne parlavo) oppure “c’ho” e così via, la scelta è sempre frutto di una consapevolezza. Si amalgama allo stile del testo, alla storia e al tipo di contenuto. In un testo formale, ad esempio la Costituzione italiana, non troverai mai “ciò”. Mai. Sul fatto che il “ci ho” faccia inciampare il lettore ti do ragione, ma Verga lo usava così e i suoi libri al liceo te li sei letti comunque… 🙂

            • Ecco, io l’ho letto più come un romanzo 😀
              Sulla grammatica ha ragione lui, la narrativa deve parlare la lingua vera, non è un saggio. (a patto sempre che l’autore sia consapevole di quel che fa 😉 )

            • E sempre su On Writing di King c’è anche questo pezzo, con cui mi trova d’accordo:
              “L’uso puntiglioso delle norme grammaticali potrebbe irrigidire quel paragrafo a scapito della duttilità. Sono affermazioni che i puristi detestano sentire e le contesteranno fino al loro ultimo respiro, ma sono vere. Il linguaggio non deve indossare sempre giacca e cravatta. Il fine della fiction non è la correttezza grammaticale ma mettere il lettore a proprio agio e poi raccontargli una storia…fargli dimenticare, se è possibile, che è lui o lei che sta leggendo la storia.”
              Detto questo, non so dove viviate voi tutti, ma qui nessuno si sogna di dire ” Ci ho l’ombrello”. Qui diciamo tutti, m’è compresa, “ciò l’ombrello”. La pronuncia è quella, il come si scriva probabilmente è anche poco importante per il lettore stesso. Leggendo “Ci ho l’ombrello” sentirebbe di più la storpiatura, sentirebbe di essere in un libro e non in una storia.

              • Concordo con te. Il punto, però, è che, se tu mandi un testo ad una casa editrice con un cosiddetto errore, nel migliore dei casi te lo correggono, nel peggiore ti rifiutano il testo. Quindi forse ha ragione Salvatore quando sostiene che la via migliore sia quella di creare attorno a sé una buona reputazione per poi poter aspirare a infrangere più liberamente le regole.

            • Lo sto leggendo ora. E sottolineando! (la sottolineatura è per me blasfemia, sottolineo solo se quel libro lo terrò a vita, ecco)
              Qualche chicca che appunto ho evidenziato:
              “Lo riscrissi e, per scherzo, lo rispedii…Questa volta lo comperarono. Una cosa che ho notato è che, quando hai avuto un briciolo di successo, le redazioni sono meno propense a usare la formuletta: ‘Non fa per noi’. ”
              Il che è proprio quello che dice Silvia.

              • Silvia

                Sai che ho ricominciato a leggerlo proprio ieri sera, sollecitata dal commento di Grilloz. Mi sono soffermata anch’io su quel punto. D’altronde, se ci pensiamo bene, è perfettamente normale. Capita in tutti i settori della vita. Quando hai conquistato la fiducia di qualcuno, come si suol dire, vivi un po’ di rendita.

    • Gli editor sono esseri umani, e come tali, sbagliano anche loro.
      Forse potrebbe anche per loro valere la regola del 3, come per i medici: sentine almeno 3, prima di capire se la diagnosi è corretta. 😉
      Infine, dipende a quale pubblico ci vogliamo rivolgere: vogliamo essere acclamati dai critici per l’accuratezza linguistica o dal popolo intero per la storia più bella che li ha fatti sognare?
      Stephen King è stato parecchio ridicolizzato dalla critica. Sono gli alti numeri delle sue vendite lo hanno fatto entrare di forza nell’Olimpo. (Salvo poi che anche lui è stato un po’ troppo severo con altri scrittori che han venduto quanto lui…ma anche King è un essere umano 😛 )

      • Anche qui ritorniamo al vecchio dubbio: chi ha ragione? chi stabilisce le regole a propri o chi, infrangendole, ottiene il gradimento del pubblico e un vasto successo? Secondo me, la narrativa non è democratica e non è chi vende di più che ha ragione. Però uno scrittore come King, autore di oltre 50 romanzi, di cui la maggior parte è divenuta un best-seller, forse forse ha qualche diritto di dire la sua. Perché il suo non è un caso sporadico, non si parla di 50 sfumature di grigio. Si parla di uno scrittore che da trent’anni tiene la vetta delle classifiche mondiali.

      • Davvero King è un essere umano? 😛
        Al di la della battuta, esce mota della sua umanità in on writing

        • Lo sto rileggendo. E a ogni pagina mi convinco che è uno dei suoi più bei romanzi. Però, per poterlo dire, forse dovrò rileggere anche tutti gli altri. 😛

    • Sì, credo che allo scrittore famoso si perdonino molte più cose: i suoi “errori” diventano elementi dello stile personalizzato. Quest’estate ho letto “cecità” di Saramago, in cui i dialoghi sono tutti senza virgolette, lineette e quanto serva a evidenziare un dialogo. Certo, forse questo non è un classico errore, è solo un modo di interpretare la scrittura, ma chissà che effetto farebbe a un editor ricevere il romanzo di un esordiente scritto così: sembrerebbe, quasi, una forma di presunzione, mentre il “dilettante” deve attenersi a ogni regola per dimostrare di “sapere fare”. E poi mi sembra corretta l’osservazione di Grilloz: se è una “stortura” occasionale sa più di errore; se la si ripete spesso nel testo allora diventa cifra stilistica.
      Comunque, quando lo stile di uno scrittore trova la sua strada, è giusto che si imponga per quello che è, poi l’ardua sentenza spetta sempre al pubblico!

      • Da una parte credo che sia abbastanza normale che si dia più fiducia a chi è già affermato. A ben vedere succede un po’ in tutti i campi. Certo, forse in questo campo c’è un’eccessiva rigidità. E come dici giustamente tu, alla fine l’ardua sentenza dovrebbe spettare al pubblico, non tanto in termini di vendite, quanto di apprezzamento.

      • Grilloz

        Non me ne intendo di lettere di presentazione agli editori, ma forse si potrebbe spiegare nella lettera “ho fatto questa scelta perchè…”, almeno si evita di passare per quelli che non sanno le regole grammaticali, e dimostra che si sa cosa si sta facendo, poi magari l’editore boccia comunque. Magari qualcuno di voi ha qualche esperienza in proposito? A parte Salvatore che ne ha già parlato 😉

        • Silvia

          Proprio stamattina Daniele ha pubblicato un post sulla sua esperienza con un editor. 🙂

    • Io vorrei che il linguaggio del mio romanzo fosse il più possibile vero, autentico. Non ho paura che arrivi il lettore brandendo il dizionario a dirmi: “lì hai sbagliato un congiuntivo” se il personaggio che parla è un tamarro, la cui ignoranza deve essere evidenziata ai fini della trama stessa. Il mio obiettivo è che il lettore fosse sollevato da sotto le ascelle e sbattuto dentro un mondo dal quale, poi, non se ne vuole andare più. 😀

      • Condivido il tuo pensiero. Peraltro, non credo che il rischio di essere accusati di ignoranza arrivi dal semplice lettore (senza dare un valore qualitativo al termine semplice). Di solito il lettore reale, quello che poi acquista e legge i libri, se lo fa è perché accetta le libertà che si prende chi scrive. Forse lo ama anche per questo. O forse, se viene catturato dalla storia, non si pone nemmeno il problema di un modo di dire abusato o di una descrizione prolissa. Forse nemmeno se ne accorge, non perché sia stupido, ma perché dà più peso a ciò che lo cattura. Il problema è il filtro che bisogna superare prima di arrivare al lettore. Cioè l’editor e/o la casa editrice. 🙂

        • Io credo che un professionista sia in grado di comprendere se l’errore è una scelta, oppure dipende dall’ignoranza. Se un libro è scritto corretto, e la frase sbagliata è proprio in bocca a “quel personaggio lì”, un motivo ci sarà. 😀

          • Questo sì, però come testimonia anche Salvatore, certe cose te le correggono, pur capendo che sono volute.

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    Silvia Algerino

    Vivo con due figli, un marito e un gatto in una casa ai confini del bosco. 
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