Dubbio n.14: Può essere efficace in narrativa il dialogo di un film?

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    Forse l’ho già detto: i dialoghi sono sempre stati il mio punto debole. Per un certo periodo della mia vita non li ho nemmeno amati. Avevo la stupida sensazione che fossero quelle parti che rallentano il racconto e che, a volte, ero persino tentata di saltare a piè pari.

    Poi, la maturità, lo studio, i bei post letti qua e là sui vostri blog e ho capito quanto peso (positivo) abbiano i dialoghi in una narrazione.

    Tralascerò le considerazioni sul fatto che un dialogo debba essere verosimile, ma non banale, e che debba portare avanti la storia. Queste cose le sapete già, inutile ripeterle. Quello su cui invece vorrei soffermarmi è sui criteri attraverso i quali scriverli e in  particolare in rapporto ai dialoghi utilizzati nel cinema.

    L’altro giorno stavo facendo un lavoretto manuale per i miei bambini e intanto guardavo, per modo di dire, il film Le donne del sesto piano. Più che altro ascoltavo perché lo sguardo era impegnato a ritagliare la carta e a evitare di tagliarmi un dito. E mi sono soffermata su un dialogo, sul quale vorrei proporvi alcune osservazioni.

    Siamo a Parigi, anni Sessanta. Maria, giovane iberica giunta a Parigi in cerca di lavoro, viene assunta come domestica dalla famiglia Jobert, agiati borghesi. In questo dialogo, che corrisponde a un’intera scena, la signora Jobert dà le istruzioni alla propria neo-cameriera su come dovrà gestire alcune faccende. Siamo alle battute iniziali e ben poco si sa dei vari personaggi.

    Signora Suzanne Jobert – “Nell’armadio accanto alla finestra c’è tutto quello che le occorre: tovaglie, tovaglioli, lenzuola. In alto mettiamo il lino che è più delicato. E mi raccomando non scambi le lenzuola con i coprimaterassi. Dunque qui c’è il servizio di Limoges. Qui il servizio per tutti i giorni e i cristalli di Baccarat. Non si confonda. Se suona il telefono risponda e si ricordi di annotare il nome e il numero di telefono”.

    Maria – “Sì, Signora Jobert”

    Suzanne – “No, mi chiami solo signora. E il signore: signore. E i miei figli: signorino Bertrand e signorino Olivier. Tornano dal collegio a fine mese. Conto su di lei perché tutto sia impeccabile”

    Ho suddiviso il dialogo in alcuni nuclei:

    1. la descrizione di come è organizzato lo spazio della casa e, in base a questo, la conseguente gestione delle faccende domestiche (con l’esplicito invito a mantenerne immutate le regole);
    2. la richiesta di utilizzare un certo tipo di approccio con i padroni di casa (“mi chiami solo signora” etc. );
    3. la presentazione dei figli che tornano dal collegio a fine mese (fino a questo punto del film lo spettatore non era a conoscenza della loro esistenza);
    4. la dichiarazione di fiducia verso la cameriera (“conto su di lei perché tutto sia impeccabile”), che in realtà cela la pretesa che sia tutto gestito in modo impeccabile.

    In un rapidissimo scambio di battute della durata di pochissimi minuti, apprendiamo una serie di informazioni che in un testo narrato avrebbero potuto occupare pagine e pagine di descrizioni. Come è stato costruito tutto ciò e come potrebbe essere trasferito in un testo narrato?

    • Nel primo nucleo descrittivo la lunga battuta della signora Jobert alterna brevi descrizioni (nell’armadio accanto alla finestra… in alto… qui c’è…) a indicazioni su ciò che la cameriera dovrà fare. In questo modo, pur se non vedessimo la scena, capiremmo che cosa sta capitando. Questo permetterebbe, anche in un dialogo scritto, di eliminare quella sovrabbondanza, stigmatizzata da Mozzi come commento al dialogo, che ci porterebbe ad utilizzare verbi come mostrare. Cioè, l’utilizzare termini, che di per sé mostrano, diventa la vera luce del dialogo senza necessità di altre spiegazioni.
    • L’alternanza di descrizioni e indicazioni (non scambi le lenzuola… non si confonda..) dà forza al dialogo perché l’ordine mostrato dalla padrona di casa diventa strumentale nel rispettare abitudini familiari a cui la nuova arrivata dovrà attenersi. Non c’è necessità di spiegare oltre. Lo spettatore (o chi ipoteticamente leggesse) ha un quadro preciso di ciò che accade in quella casa e del perché.
    • I modi della signora Jobert di rivolgersi a Maria dimostrano una cortesia di facciata, quasi specchio di una classe sociale che tiene molto all’etichetta. Il rapporto che nascerà tra le due donne è già anticipato in questa scena: cortesia e rispetto in cambio di rispetto delle regole.
    • Fino a questo punto del film i figli non erano mai entrati in gioco. Non si erano mai visti. Con una breve battuta, che tra l’altro – almeno inizialmente – ha un’altra finalità, ovvero di istruire la cameriera su come rivolgersi ai padroni di casa,  si porta lo spettatore a conoscenza della loro esistenza. Ma non solo: si rende noto anche che si trovano in collegio e che tornano a fine mese. L’ultima frase del dialogo è sibillina. Mi viene da pensare che la vicinanza tra il riferimento al ritorno dei figli e la richiesta che sia tutto impeccabile siano strettamente correlati. Se così fosse, avremmo un elemento in più che dichiara una sorta di sottomissione materna al giudizio dei figli. In realtà nel proseguire del film i figli dimostrano una capacità decisionale, almeno millantata, superiore a quella dei genitori. Che questa battuta ne sia un tratto introduttivo?
    • Attenzione, però. Questo più che un dialogo è un monologo. La cameriera ha solo una battuta, che tuttavia è fondamentale perché dà il via all’ultima battuta della padrona di casa. In in testo narrato reggerebbe?

    Detto tutto ciò, una domanda sorge spontanea. Se nello scrivere i nostri dialoghi ci immaginassimo delle scene di film, non saremmo forse più liberi dalla paura di essere fraintesi? Non saremmo meno tentati dalla sovrabbondanza di informazioni e dalla aggiunta di inutili ripetizioni? Avete mai pensato ai vostri dialoghi come dialoghi di film?

    Se ti è piaciuto, condividilo!

    23 Comments

    • nadia

      Assolutamente sì, almeno per me. Al solito la tua analisi è precisa e perfetta al millimetro. Infatti la narrazione si velocizza con il giusto ritmo del dialogo che apporta informazioni altrimenti troppo noiose. Nel libro che sto leggendo se l’autore ci avesse anche solo pensato a far intervenire i personaggi forse avrebbe sollevato il lettore del peso di una narrazione lunga e spossante. (Ritorno a Cold Mountain di Charles Frazier).
      Ritorno alla tua domanda. Quando scrivo penso di vedere la scena in tv e mi aspetto sia avvincente e mai spenta, nel dialogo devo far emergere tratti del personaggio che un attento lettore trovi coinvolgente in maniera da creare un legame personale e psicologico. Ovviamente rispetto ai tempi cinematografici, nella scrittura è necessario precisare di più, mancando il senso della vista e dell’udito per dare carattere, ma senza i dialoghi il racconto perde molto.

      • Non ho mai letto il libro di cui parli. Per la verità non ho neanche visto il film. Però, visto che citi proprio un libro da cui è stato tratto un film sarebbe interessante in quest’ottica confrontare la trasposizione cinematografica con il testo scritto.

    • Io scrivo tutto come se fosse un film, ovviamente adattando il testo alle mie esigenze narrative. Ho l’abitudine di visualizzare ogni scena, focalizzandomi su ambienti, movenze e parole. Il rischio è quello di allungare il brodo, ma poi in revisione si taglia. 🙂

      • Silvia

        Anche a me piace l’idea di pensare a un testo come un film. Certo, la descrizione di alcune scene potrebbe avere l’effetto, come dici tu, di allungare il brodo. Però per quanto riguarda i dialoghi la mia sensazione è quella di essere più diretti, cioè, al contrario, di eliminare parti ridondanti.

    • Tu, cara Silvia, alla fine chiedi: In in testo narrato reggerebbe?
      Per me no, mi dà l’idea di infodump spinto.

      • Se l’informazione è anche per il personaggio e non per il lettore non è infodump. L’infodump si crea nel momento in cui l’autore usa il dialogo per dire al lettore ciò che il personaggio interlocutore sa già. Della serie: “Marco, devi andare a prendere la zia Maria, che come sai da quando si è rotta una gamba non si può muovere…”

        • Grazie mille, Chiara. Mi hai chiarito benissimo il punto. 🙂

          • Grazie mille anche a te, Michele. Proverò a seguire il tuo link, anche se l’inglese non è il mio forte. 😛

            • Dai, proviamoci. Anche per me è dura! 😛

      • Secondo me, mi sono espressa male. 😛 Io intendevo proprio togliere infodump, cioè sostituire parti descrittive con dialoghi… :)

    • Io cerco di conoscere i personaggi, perché in questa maniera forse riesco a scrivere dei dialoghi decenti. Ho imparato (ma c’è sempre da imparare) anche dalla serie Law & Order, che ha dialoghi a mio giudizio molto buoni. Quindi immagino che sì, se immagini i dialoghi come scene di film, non dico che sei a cavallo, ma quasi. Cinema e televisione hanno plasmato il nostro modo di vedere, di osservare e di raccontare. Ecco perché è necessario leggere soprattutto storie ambientate nei gironi nostri. Tolstoj e Dostoevskij non avevano il cinema né la televisione, perciò usavano un altro modo di raccontare.

      • Sì, anch’io credo che il nostro immaginario sia condizionato dalla televisione e dal cinema. Tanto che spesso anche come lettrice mi capita di “vedere” un libro come se fosse un film. Però sarebbe anche interessante poter tornare indietro nel tempo e interpretare la scrittura con occhi diversi per capire il perché di certe scelte narrative. 🙂

    • Intanto complimenti per le tue analisi, sempre precise. Rispondendo alla tua domanda del titolo, mi viene da dire “sì e no”. Penso che dai dialoghi di film e serie tv (quando fatti bene) ci sia molto da imparare. Nell’esempio che hai fatto, in effetti il parlato riesce a evitare delle descrizioni e anche a sottolineare cose che a uno spettatore sfuggirebbero. Questi due vantaggi sono utili anche nella narrativa. Tuttavia, sulla carta i dialoghi di film e serie tv fanno un effetto diverso. E’ di sicuro difficile generalizzare, quindi. Io mi sforzo sempre di analizzare i dialoghi che sento, c’è sempre molto da imparare.
      Restando al tuo esempio, poi mi viene anche riflettere che l’effetto che si suscita è molto diverso anche in base al punto di vista, una cosa di cui tenere conto nella narrativa, mentre sullo schermo assume meno importanza.

      • Avevo risposto anche a te, ma evidentemente ho fatto qualche pasticcio e il commento è scomparso! Rifaccio.
        Grazie per i complimenti e grazie per la risposta.
        Sì, è vero, c’è anche da tenere conto del punto di vista. A questo non avevo pensato. Il tutto si fa sempre più complicato…

    • Dipende.
      (…si sente spesso come risposta 😛 )
      Come molti hanno già detto, anch’io “vedo” e poi scrivo. E “vedo” proprio come in un film, con primi piani, campo lungo, dettaglio, musiche comprese. Ergo, di una scena vedo già se ci starebbe bene un dialogo o un riassunto (che corrisponde alla scena con sottofondo musicale e le azioni senza parlato, se vuoi). Questo perchè la nostra è civiltà per immagini oramai.
      Non vorrei sbagliare, ma mi sembra che anche i lettori deboli cerchino libri con la stessa struttura di film (e di conseguenza si vendono bene).

      • Silvia

        Sì, è vero. Come rispondevo a Marco, siamo molto condizionati dalle immagini. E forse la scrittura per immagini richiede al lettore un minor sforzo mentale, per questo, come dici tu, è adatta anche ai lettori deboli. Forse non sarebbe male riuscire a evocare piuttosto che descrivere. Penso per esempio a Stephen King che sovente si dilunga in descrizioni cinematografiche ma allo stesso tempo con alcune metafore azzeccate ti porta in una determinata situazione con solo un cenno.

    • Quando scrivo, immagino anch’io la storia come se fosse la sceneggiatura di un film, tuttavia il parlato credo sortisca effetti diversi, su chi guarda la scena, rispetto al narrato per chi legge. Una descrizione così dettagliata di come è organizzato lo spazio della casa potrebbe risultare pesante, anche un po’ noiosa, forse, ma lo dico così, d’istinto, perché poi bisognerebbe contestualizzare tutto. Ho letto un libro dove una cuoca, protagonista, descriveva ogni passaggio della preparazione di una data pietanza e poi tutto il modo di servirla al padrone di casa. Lo faceva ora dialogando con un amico, ora con un monologo a voce alta. Per carità, una volta per fare capire le usanze inglesi o per fare immaginare le case tipiche a due piani (c’era questo continuo sali e scendi con i vassoi) può essere interessante, ma duecento pagine così diventano un sonnifero.

      • Senza dubbio dipende molto anche dalla misura. Duecento pagine così sarebbero davvero mortali. Ma se noi lasciassimo solo il dialogo al centro, eliminando ogni commento attorno ad esso, non sarebbe sufficiente di per sé a descrivere e a dare le informazioni necessarie, lasciando intuire al lettore ciò che non può vedere?

        • Sì, suppongo di sì.
          E noi sperimentiamo! 🙂

    • Io tendo a scrivere tutto come se fosse reale, molto reale, troppo reale. Non a caso le parolacce, le espressioni idiomatiche e i modi di dire, soprattutto quelli di ultima generazione, sono seminati un po’ ovunque. Se mi rendo conto che un dialogo è finto, che nessuno userebbe una determinata parola o che non direbbe mai niente del genere, cancello. Credo di aver sempre realizzato le conversazioni vedendomi davanti “gli attori” della scena. Diciamo che il genere che ho pubblicato finora si prestava bene al dialogo realistico. Diverso è il caso della fantascienza. Lì immaginare “la realtà” è una fatica assurda, per questo non ho idea di quando lo finirò. 😀

      • Non sarei mai in grado di scrivere fantascienza. Anche perché ne ho letta troppo poca per potermi cimentare. Credo che immaginare una realtà che non è quella reale senza cadere nel tranello di trasformare i personaggi in caricature sia davvero molto difficile. Che poi è la stessa cosa che accade quando si vuole rappresentare un personaggio che esula dalla normalità. Penso per esempio alla tentazione di far parlare un tedesco come gli Strumtruppen o un migrante con tutti i verbi all’infinito.

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    Vivo con due figli, un marito e un gatto in una casa ai confini del bosco. 
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